Tra esattamente quattro giorni sarà una data importante per la storia del mondo: scuole, università, televisioni e famiglie torneranno a discutere attorno agli eventi della grande distruzione, quella che dal 1933 al 1941 vide la Germania nazista sterminare circa i due terzi degli ebrei d’Europa.
E’ una data importante quella in cui si ricorda la Shoah, e lo è più che mai nel 2015. Lo è perché, nonostante tutto, in Europa e nel mondo continuano ad esistere minoranze ghettizzate, discriminate, boicottate. Perché nonostante la memoria perpetrata in dosi massicce e più che mai documentate, esistono culture che si affiancano alla nostra quotidianamente e con le quali, ancora oggi, non si riesce ad intraprendere un rapporto di scambio, reciproca conoscenza e collaborazione.
E lo dimostrano i fatti di cronaca: lo scorso marzo 2014, a Roma, sulla vetrina di una panetteria del quartiere Tuscolano qualcuno affigge un cartello scritto a mano, in cui si avverte che “è severamente vietato l’ingresso agli zingari, anche davanti al negozio”. Ad accorgersene quasi immediatamente è l’Associazione 21 Luglio, organizzazione non profit
impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinte in Italia, e l’immagine, affiancata a quelle di due vecchi cartelli che nel 1938 in Germania e 1953 in Sudafrica vietavano l’ingresso ad ebrei e neri, inizia a fare il giro della cronaca romana e nazionale.
L’episodio, descritto così com’è, appare simile a molti altri fatti narrati dai giornali in cui disabili, autistici, gay o immigrati si sono visti rifiutati da esercenti, gruppi o istituzioni. Ma c’è una differenza: la reazione dei lettori, anziché di condanna nei confronti di ogni forma di intolleranza, è stata di solidarietà verso il panettiere intollerante:
Sono i commenti delle migliaia di “anonimi” della rete ad aver spinto i volontari dell’Associazione a svolgere la ricerca sociale che in meno di un anno ha dato vita al rapporto “Vietato L’Ingresso” (messo a disposizione da Redattore Sociale) presentato in questi giorni in occasione della Shoah: “Il meccanismo di partecipazione alla discussione pubblica attraverso il dispositivo del commento alla notizia online [...] si pone piuttosto come un intento dichiarativo di opinioni già strutturate” , ricorda lo staff di 21 Luglio nella presentazione della ricerca. Ed è proprio per questo che, alla luce della grande memoria in difesa della tolleranza, si è voluto fare un parallelismo tra l’intolleranza di oggi nei confronti della minoranza Rom e quella di “ieri” nei confronti dell’etnia ebraica.
È nato così il contatto con esponenti della comunità ebraica romana, che “ a cascata” si è poi allargato ad insegnanti, storici, antropologi, giornalisti e intellettuali. Alla fine del lavoro, con grande sorpresa degli stessi ricercatori, sono venute fuori ben 21 interviste in cui hanno preso parola
8 ebrei, 8 rom e 5 non ebrei e non rom.
L’idea, concretizzatasi nella terza parte del lavoro, è stata quella di mettere in scena un dialogo tra esponenti di due popoli. Dialogo volto soprattutto a decostruire quegli stereotipi che, come la testa della figura mitologica Idra, continuano a nascere sul sangue e sulle ceneri delle intolleranze passate e – apparentemente – cancellate dalla storia, dalla costruzione della "memoria".
Il motivo per cui ho scelto di introdurvi a questa ricerca sta, oltre che nella volontà di provar a dare delle risposte ai quesiti che la stampa mainstream (troppo spesso animata da toni ‘pulp’ e ‘splatter’) non dà, anche nella “storica e – veramente – politica oggettività” delle argomentazioni fornite dagli intervistati. Gli esponenti che hanno preso parola in questo rapporto non si sono fatti difensori incondizionati della comunità Romnì, ma hanno posto su un tavolo di confronto tutta quella serie di elementi che, complessi e variegati, rappresentano oggi le radici più importanti della mancata integrazione tra la comunità rom e quella, se così vogliamo definirla, non-rom.
Nell’esporvi ciò che più mi ha interessata non sarò ovviamente esaustiva: l’unico modo per comprendere questo rapporto è scaricarlo e gustarselo pagina dopo pagina. Ma ci sono delle cose che in particolare mi hanno colpita: la differenza tra il modo in cui comunità ebraica e comunità romnì trattano, narrano ed archiviano le proprie memorie;il razzismo istituzionale, che nelle sue sterminate forme confina sempre in “dubbio assistenzialismo” a beneficio di nessuno, e il razzismo sociale ampiamente diffuso tra gli italiani, soprattutto a causa di narrazioni distorte rispetto a quella che è la cultura rom.
Il primo punto, evidenziato soprattutto dalla ricercatrice Pupa Garribba, sta nella netta contrapposizione tra la cultura ebraica, fortemente legata al “libro” e alla trasmissione materiale della sua memoria, e quella Rom, caratterizzata invece da una forte oralità. Oralità che, peraltro, sembra stia scomparendo pure tra i suoi stessi membri: “Se non lo racconto io quando vado nelle scuole, dei 500 mila rom sterminati dal nazismo, non lo racconta nessuno! – afferma Garribba - Ma la cosa più grave è che non se la raccontano neanche più tra di loro, o perlomeno questa è la mia impressione, che si sia interrotta anche la trasmissione interna di questa memoria.”
E’ stata poi Claudia Zaccai, tra gli altri, a mettere in luce come una minoranza, inevitabilmente, si trovi anche in una posizione di impoverimento culturale e che “quindi è il ruolo e l’obbligo dei gruppi più colti ed istruiti di mantenere i rapporti, non rinnegare le proprie radici e organizzare forme di resistenza” . La politica italiana, secondo la pedagoga, è incapace di affrontare il problema delle minoranze. È una politica che evidenzia e alimenta le differenze, soprattutto attraverso quelle dubbie forme di “assistenzialismo” da sempre perpetrate sottoforma di Campi Nomadi: “Mi ricordo bene che quando c’era la guerra civile nella ex Jugoslavia e qua giunsero numerose comunità di origine rom – spiega Zaccai - il Ministero dell’Interno affermò che non erano necessari dei programmi di integrazione come per gli altri rifugiati, poiché era sufficiente organizzarli in campi istituzionali, dal momento che queste persone erano già abituate a questa modalità di convivenza. Questi poveracci, che rappresentavano la generazione degli integrati, ebbero enormi problemi nell’adattarsi alla vita dei campi alla quale non erano affatto preparati” .
E la logica dei campi nomadi, ancora oggi, continua a rappresentare la più grande forma di razzismo istituzionale, il principale deterrente all’integrazione rom. È a questo proposito che Alexian Santino Spinelli ricorda come “si accettano ineluttabilmente i ‘campi nomadi’ che sono l’espressione di segregazione razziale più vergognosa e più incivile della nostra società. I rom non sono mai stati ‘nomadi’ per cultura ma gli spostamenti sono sempre stati coatti e figli della discriminazione. [...] Oggi il tanto decantato nomadismo giustifica la ghettizzazione adducendo che è nella cultura dei rom vivere in tal modo e c’è chi rispetta questa volontà. [...]milioni e milioni di euro sperperati in nome e per conto dei rom senza alcun beneficio reale per gli stessi rom” .
E se il confine che c’è tra l’istituzionale e il “socialmente diffuso” è sottilissimo, allora al razzismo dello Stato non può che affiancarsi la sua conseguenza: il rifiuto da parte della società della non-stanzialità dei rom. È a proposito di ciò che Michela procaccia, della comunità ebraica di Roma, ricorda come “il nomadismo è certamente deviante” , e come dunque sia inevitabile questa “espulsione” dei rom dal corpo sociale, alla stregua di quelle operate nei confronti “di tutti coloro che non sono produttivi - nell’ottica della società capitalista - come ad esempio i malati di mente, con una individuazione del trattamento da riservare che intende renderli produttivi”.
Parallela al rifiuto, ovviamente, è la componente della narrazione sociale del rom: se da una parte dunque è messo in luce il totale “immobilismo” di questa comunità rispetto a una qualsiasi forma di “rivalsa”, dall’altra Amet Jasar, attore e regista che vive a Skopje, unica municipalità del mondo a maggioranza rom, evidenzia come “L’influenza principale, nella costruzione degli stereotipi, è quella della società che, fin da bambini, instilla paure e false credenze nelle giovani menti in formazione”. Detto ciò, mi viene da pensare soprattutto al modo in cui questi stereotipi e pregiudizi siano trattati dalla stampa: Sandra Terracina, biologa e coordinatrice Progetto Memoria CDEC, afferma come da sempre nella cultura mediatica italiana c’è un fondo di discriminazione nei confronti delle minoranze, di come ci sia una abitudine pubblica di parlare con leggerezza di questioni scientifiche come la Genetica e la funzione del DNA.
“Il processo mediatico che c’è intorno ai rom – continua Dolores Barletta, 29enne rom lucana – lo conosciamo tutti. Essi sono sempre il capro espiatorio nei momenti difficili [...]. un altro aspetto da considerare è la diversità dei rom, che non è assolutamente conosciuta e approfondita da nessuno”.
È un lavoro lungo, quello svolto dallo staff di 21 Luglio. Un lavoro a cui vale la pena dedicare attenzione soprattutto per la varietà di voci che è riuscito a mettere in campo. Io, ribadisco, non sono stata esaustiva e mi sono limitata a porre in uno spazio molto piccolo le cose che più mi sono parse emblematiche.
Tra riferimenti storici, sociologici, culturali e politici, tutte e 21 le interviste sono state intrecciate in una conclusione, e sotto il quesito “Quali propositi è necessario realizzare per promuovere un miglioramento della condizione rom e sinti?” Si elaborano gli aspetti principali della loro situazione: a partire dalla condizione di immobilismo della comunità e la sua incapacità di inserirsi nel nostro contesto mediatico e comunicativo, si arriva a discutere sulle dinamiche della nostra cultura, sulla necessità di farla dialogare con quella delle minoranze, sugli obblighi della politica lasciati incompiuti soprattutto per mezzo dell’indifferenza.
Il modo migliore per imparare dalla memoria è analizzare il presente, tirarsi fuori dai suoi stereotipi e cercare di comprenderlo senza cadere in giochi “euristici”. In occasione della Shoah, che sarà martedì, invito tutti a leggere questo volume gratuito e prendersi, ognuno a modo proprio, le risposte a quesiti che spesso cronaca e semplicistica narrazione storica non sono in grado di dare.
A questo punto, per chiudere, vi lascio con un passo del rapporto: Alexian Santino Spinelli risponde ad alcuni aspetti comunemente oggetto di forte critica nei confronti della comunità rom, con le argomentazioni che ha ritenuto più significative:
“• I genitori rom non mandano i bimbi a scuola.
I genitori, soprattutto quelli che vivono nei “campi nomadi”, non hanno fiducia nella scuola che è la scuola dei gagè (non rom) che non valorizza la cultura romanì ma tende ad assimilarla. I rom vogliono l'inclusione positiva e l'interazione non l'assimilazione.
• i bambini vengono costretti a fare l'elemosina, ed hanno funzione di impietosire per facilitare gesti caritatevoli.
Nel mondo rom il mondo dei piccoli non è diviso da quello degli adulti e tutti concorrono all'economia familiare. Se la famiglia è in condizioni di emarginazione e privata di ogni diritto i bambini non fanno eccezione. I bambini vivono a stretto contatto con i propri genitori.
• i bambini vengono esposti pubblicamente in maniera eccessiva.
I bambini vivono il mondo degli adulti. E tutto ne consegue. Le abitudini e i comportamenti sono assolutamente diversi fra le famiglie che vivono nei “campi nomadi” rispetto a quelle che vivono in casa.
• i rom che si vedono sono quelli più disagiati mentre quelli integrati non lo dicono pubblicamente e dovrebbero farlo.
I rom italiani di antico insediamento sono certamente più integrati rispetto ai rom di recente immigrazione. I rom italiani sono fieri della loro cultura ma non si identificano nei fatti di cronaca da cui spesso prendono le distanze. Non tutti gli italiani sono mafiosi e dai fatti di cronaca prendono le giuste distanze.
• le donne rom subiscono atteggiamenti maschilisti dentro le loro famiglie.
La società italiana è una società maschilista per eccellenza. Il mondo rom è maschilista né più e né meno come tante altre società.
• molti rom preferiscono vivere nei “campi”.
Nei “campi nomadi” si costituiscono economie di sopravvivenza che creano dipendenza e illegalità come in tutti i ghetti. Sono fenomeni sociali non culturali. I ghetti ebraici, le riserve indiane ma la stessa italianissima Scampia a Napoli non fanno eccezione. I “campi nomadi” anche per questo vanno superati.”"
E’ una data importante quella in cui si ricorda la Shoah, e lo è più che mai nel 2015. Lo è perché, nonostante tutto, in Europa e nel mondo continuano ad esistere minoranze ghettizzate, discriminate, boicottate. Perché nonostante la memoria perpetrata in dosi massicce e più che mai documentate, esistono culture che si affiancano alla nostra quotidianamente e con le quali, ancora oggi, non si riesce ad intraprendere un rapporto di scambio, reciproca conoscenza e collaborazione.
E lo dimostrano i fatti di cronaca: lo scorso marzo 2014, a Roma, sulla vetrina di una panetteria del quartiere Tuscolano qualcuno affigge un cartello scritto a mano, in cui si avverte che “è severamente vietato l’ingresso agli zingari, anche davanti al negozio”. Ad accorgersene quasi immediatamente è l’Associazione 21 Luglio, organizzazione non profit
impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinte in Italia, e l’immagine, affiancata a quelle di due vecchi cartelli che nel 1938 in Germania e 1953 in Sudafrica vietavano l’ingresso ad ebrei e neri, inizia a fare il giro della cronaca romana e nazionale.
L’episodio, descritto così com’è, appare simile a molti altri fatti narrati dai giornali in cui disabili, autistici, gay o immigrati si sono visti rifiutati da esercenti, gruppi o istituzioni. Ma c’è una differenza: la reazione dei lettori, anziché di condanna nei confronti di ogni forma di intolleranza, è stata di solidarietà verso il panettiere intollerante:
«Ritengo assurdo che si possano difendere gli zingari!»
( Commento anonimo – Facebook.it ).
«Trovo che con questa scusa del razzismo una persona non possa più esprimere le proprie opinioni» (Commento anonimo – Romatoday.it)
«Non mi sembra che si tratti di razzismo, ma di realismo»
( Commento anonimo – Corriere.it )
Sono i commenti delle migliaia di “anonimi” della rete ad aver spinto i volontari dell’Associazione a svolgere la ricerca sociale che in meno di un anno ha dato vita al rapporto “Vietato L’Ingresso” (messo a disposizione da Redattore Sociale) presentato in questi giorni in occasione della Shoah: “Il meccanismo di partecipazione alla discussione pubblica attraverso il dispositivo del commento alla notizia online [...] si pone piuttosto come un intento dichiarativo di opinioni già strutturate” , ricorda lo staff di 21 Luglio nella presentazione della ricerca. Ed è proprio per questo che, alla luce della grande memoria in difesa della tolleranza, si è voluto fare un parallelismo tra l’intolleranza di oggi nei confronti della minoranza Rom e quella di “ieri” nei confronti dell’etnia ebraica.
È nato così il contatto con esponenti della comunità ebraica romana, che “ a cascata” si è poi allargato ad insegnanti, storici, antropologi, giornalisti e intellettuali. Alla fine del lavoro, con grande sorpresa degli stessi ricercatori, sono venute fuori ben 21 interviste in cui hanno preso parola
8 ebrei, 8 rom e 5 non ebrei e non rom.
L’idea, concretizzatasi nella terza parte del lavoro, è stata quella di mettere in scena un dialogo tra esponenti di due popoli. Dialogo volto soprattutto a decostruire quegli stereotipi che, come la testa della figura mitologica Idra, continuano a nascere sul sangue e sulle ceneri delle intolleranze passate e – apparentemente – cancellate dalla storia, dalla costruzione della "memoria".
Il motivo per cui ho scelto di introdurvi a questa ricerca sta, oltre che nella volontà di provar a dare delle risposte ai quesiti che la stampa mainstream (troppo spesso animata da toni ‘pulp’ e ‘splatter’) non dà, anche nella “storica e – veramente – politica oggettività” delle argomentazioni fornite dagli intervistati. Gli esponenti che hanno preso parola in questo rapporto non si sono fatti difensori incondizionati della comunità Romnì, ma hanno posto su un tavolo di confronto tutta quella serie di elementi che, complessi e variegati, rappresentano oggi le radici più importanti della mancata integrazione tra la comunità rom e quella, se così vogliamo definirla, non-rom.
Nell’esporvi ciò che più mi ha interessata non sarò ovviamente esaustiva: l’unico modo per comprendere questo rapporto è scaricarlo e gustarselo pagina dopo pagina. Ma ci sono delle cose che in particolare mi hanno colpita: la differenza tra il modo in cui comunità ebraica e comunità romnì trattano, narrano ed archiviano le proprie memorie;il razzismo istituzionale, che nelle sue sterminate forme confina sempre in “dubbio assistenzialismo” a beneficio di nessuno, e il razzismo sociale ampiamente diffuso tra gli italiani, soprattutto a causa di narrazioni distorte rispetto a quella che è la cultura rom.
Il primo punto, evidenziato soprattutto dalla ricercatrice Pupa Garribba, sta nella netta contrapposizione tra la cultura ebraica, fortemente legata al “libro” e alla trasmissione materiale della sua memoria, e quella Rom, caratterizzata invece da una forte oralità. Oralità che, peraltro, sembra stia scomparendo pure tra i suoi stessi membri: “Se non lo racconto io quando vado nelle scuole, dei 500 mila rom sterminati dal nazismo, non lo racconta nessuno! – afferma Garribba - Ma la cosa più grave è che non se la raccontano neanche più tra di loro, o perlomeno questa è la mia impressione, che si sia interrotta anche la trasmissione interna di questa memoria.”
E’ stata poi Claudia Zaccai, tra gli altri, a mettere in luce come una minoranza, inevitabilmente, si trovi anche in una posizione di impoverimento culturale e che “quindi è il ruolo e l’obbligo dei gruppi più colti ed istruiti di mantenere i rapporti, non rinnegare le proprie radici e organizzare forme di resistenza” . La politica italiana, secondo la pedagoga, è incapace di affrontare il problema delle minoranze. È una politica che evidenzia e alimenta le differenze, soprattutto attraverso quelle dubbie forme di “assistenzialismo” da sempre perpetrate sottoforma di Campi Nomadi: “Mi ricordo bene che quando c’era la guerra civile nella ex Jugoslavia e qua giunsero numerose comunità di origine rom – spiega Zaccai - il Ministero dell’Interno affermò che non erano necessari dei programmi di integrazione come per gli altri rifugiati, poiché era sufficiente organizzarli in campi istituzionali, dal momento che queste persone erano già abituate a questa modalità di convivenza. Questi poveracci, che rappresentavano la generazione degli integrati, ebbero enormi problemi nell’adattarsi alla vita dei campi alla quale non erano affatto preparati” .
E la logica dei campi nomadi, ancora oggi, continua a rappresentare la più grande forma di razzismo istituzionale, il principale deterrente all’integrazione rom. È a questo proposito che Alexian Santino Spinelli ricorda come “si accettano ineluttabilmente i ‘campi nomadi’ che sono l’espressione di segregazione razziale più vergognosa e più incivile della nostra società. I rom non sono mai stati ‘nomadi’ per cultura ma gli spostamenti sono sempre stati coatti e figli della discriminazione. [...] Oggi il tanto decantato nomadismo giustifica la ghettizzazione adducendo che è nella cultura dei rom vivere in tal modo e c’è chi rispetta questa volontà. [...]milioni e milioni di euro sperperati in nome e per conto dei rom senza alcun beneficio reale per gli stessi rom” .
E se il confine che c’è tra l’istituzionale e il “socialmente diffuso” è sottilissimo, allora al razzismo dello Stato non può che affiancarsi la sua conseguenza: il rifiuto da parte della società della non-stanzialità dei rom. È a proposito di ciò che Michela procaccia, della comunità ebraica di Roma, ricorda come “il nomadismo è certamente deviante” , e come dunque sia inevitabile questa “espulsione” dei rom dal corpo sociale, alla stregua di quelle operate nei confronti “di tutti coloro che non sono produttivi - nell’ottica della società capitalista - come ad esempio i malati di mente, con una individuazione del trattamento da riservare che intende renderli produttivi”.
Parallela al rifiuto, ovviamente, è la componente della narrazione sociale del rom: se da una parte dunque è messo in luce il totale “immobilismo” di questa comunità rispetto a una qualsiasi forma di “rivalsa”, dall’altra Amet Jasar, attore e regista che vive a Skopje, unica municipalità del mondo a maggioranza rom, evidenzia come “L’influenza principale, nella costruzione degli stereotipi, è quella della società che, fin da bambini, instilla paure e false credenze nelle giovani menti in formazione”. Detto ciò, mi viene da pensare soprattutto al modo in cui questi stereotipi e pregiudizi siano trattati dalla stampa: Sandra Terracina, biologa e coordinatrice Progetto Memoria CDEC, afferma come da sempre nella cultura mediatica italiana c’è un fondo di discriminazione nei confronti delle minoranze, di come ci sia una abitudine pubblica di parlare con leggerezza di questioni scientifiche come la Genetica e la funzione del DNA.
“Il processo mediatico che c’è intorno ai rom – continua Dolores Barletta, 29enne rom lucana – lo conosciamo tutti. Essi sono sempre il capro espiatorio nei momenti difficili [...]. un altro aspetto da considerare è la diversità dei rom, che non è assolutamente conosciuta e approfondita da nessuno”.
È un lavoro lungo, quello svolto dallo staff di 21 Luglio. Un lavoro a cui vale la pena dedicare attenzione soprattutto per la varietà di voci che è riuscito a mettere in campo. Io, ribadisco, non sono stata esaustiva e mi sono limitata a porre in uno spazio molto piccolo le cose che più mi sono parse emblematiche.
Tra riferimenti storici, sociologici, culturali e politici, tutte e 21 le interviste sono state intrecciate in una conclusione, e sotto il quesito “Quali propositi è necessario realizzare per promuovere un miglioramento della condizione rom e sinti?” Si elaborano gli aspetti principali della loro situazione: a partire dalla condizione di immobilismo della comunità e la sua incapacità di inserirsi nel nostro contesto mediatico e comunicativo, si arriva a discutere sulle dinamiche della nostra cultura, sulla necessità di farla dialogare con quella delle minoranze, sugli obblighi della politica lasciati incompiuti soprattutto per mezzo dell’indifferenza.
Il modo migliore per imparare dalla memoria è analizzare il presente, tirarsi fuori dai suoi stereotipi e cercare di comprenderlo senza cadere in giochi “euristici”. In occasione della Shoah, che sarà martedì, invito tutti a leggere questo volume gratuito e prendersi, ognuno a modo proprio, le risposte a quesiti che spesso cronaca e semplicistica narrazione storica non sono in grado di dare.
A questo punto, per chiudere, vi lascio con un passo del rapporto: Alexian Santino Spinelli risponde ad alcuni aspetti comunemente oggetto di forte critica nei confronti della comunità rom, con le argomentazioni che ha ritenuto più significative:
“• I genitori rom non mandano i bimbi a scuola.
I genitori, soprattutto quelli che vivono nei “campi nomadi”, non hanno fiducia nella scuola che è la scuola dei gagè (non rom) che non valorizza la cultura romanì ma tende ad assimilarla. I rom vogliono l'inclusione positiva e l'interazione non l'assimilazione.
• i bambini vengono costretti a fare l'elemosina, ed hanno funzione di impietosire per facilitare gesti caritatevoli.
Nel mondo rom il mondo dei piccoli non è diviso da quello degli adulti e tutti concorrono all'economia familiare. Se la famiglia è in condizioni di emarginazione e privata di ogni diritto i bambini non fanno eccezione. I bambini vivono a stretto contatto con i propri genitori.
• i bambini vengono esposti pubblicamente in maniera eccessiva.
I bambini vivono il mondo degli adulti. E tutto ne consegue. Le abitudini e i comportamenti sono assolutamente diversi fra le famiglie che vivono nei “campi nomadi” rispetto a quelle che vivono in casa.
• i rom che si vedono sono quelli più disagiati mentre quelli integrati non lo dicono pubblicamente e dovrebbero farlo.
I rom italiani di antico insediamento sono certamente più integrati rispetto ai rom di recente immigrazione. I rom italiani sono fieri della loro cultura ma non si identificano nei fatti di cronaca da cui spesso prendono le distanze. Non tutti gli italiani sono mafiosi e dai fatti di cronaca prendono le giuste distanze.
• le donne rom subiscono atteggiamenti maschilisti dentro le loro famiglie.
La società italiana è una società maschilista per eccellenza. Il mondo rom è maschilista né più e né meno come tante altre società.
• molti rom preferiscono vivere nei “campi”.
Nei “campi nomadi” si costituiscono economie di sopravvivenza che creano dipendenza e illegalità come in tutti i ghetti. Sono fenomeni sociali non culturali. I ghetti ebraici, le riserve indiane ma la stessa italianissima Scampia a Napoli non fanno eccezione. I “campi nomadi” anche per questo vanno superati.”"
Giulia Capozzi
(@giulscapozzi )
(@giulscapozzi )
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