martedì 31 marzo 2015

[Itinerari Letterari] Le risse degli intellettuali #4: Futuristi e Vociani, non volano solo le parole


Nei primi anni del Novecento, Firenze accoglieva a Piazza Vittorio Emanuele – poi Piazza della Repubblica – la Birreria dei Fratelli Reninghaus, poi ribattezzata Caffè Giubbe Rosse per il colore delle giacche dei camerieri. Non era un bar come tanti in una città come tante, era un caffé letterario nella città più letteraria d'Italia. Tra i suoi tavolini passano Campana, Montale, Landolfi, Ungaretti, Gadda, Soffici, Marinetti e molti altri1. La varietà dei nomi mostra di riflesso la varietà degli approcci alla letteratura di chi passò per quel mondo animato di voci e profumato di caffé.

Accade che, tra i tanti, ci siano anche i vociani proprio negli anni in cui i futuristi prendono piede a Firenze. 
I primi sono caratterizzati da un modo critico irriverente, i secondi da una violenza inaudita.
Luglio 1911, sulla rivista «La Voce» appare un articolo di Ardengo Soffici dal titolo Arte Libera e pittura futurista2. È una recensione, stroncatura indemoniata di un'esposizione avvenuta al padiglione della fabbrica di Ricordi di Milano. Marinetti si sveglia la mattina, legge il giornale e probabilmente la colazione gli va di traverso. Parla con Boccioni, con Russolo e Carrà. I loro quadri sono stati distrutti dalle parole di un tale Soffici, di un vociano. Decidono un'immediata spedizione punitiva. Consapevoli che gli scrittori de «La Voce» spesso si riuniscono ai tavolini del caffè Giubbe Rosse, si mettono in marcia e, una volta entrati, dopo aver chiesto chi fosse Soffici è subito il putiferio. Soffici, consapevole di quanto aveva detto ma abituato a risposte di altro genere, è seduto a tavolino con Medardo Rosso ascoltando la banda militare. Qualcuno gli tocca la spalla, lui alza la testa e si ritrova a terra. Sono arrivati i futuristi. «Pronto per natura a reagire alle offese, specie di quel genere, mi rialzai di botto, impugnai un bastone di legno fortissimo, che mi era rimasto tra mano nella caduta, e con quello mi scagliai sull'aggressore, che ora vedevo spalleggiato da uno o due altri, menando bòtte a ramata nel mucchio»3: dopo un momento di sgomento Soffici risponde e in un attimo è il putiferio. Medardo Rosso cerca inutilmente di separarli, i tavolini si rovesciano, vicini che scappano gridando, camerieri che cercano di ristabilire l'ordine. Alla fine arriva anche la polizia e, come racconta Carrà stesso, gli uni e gli altri furono portati al commissariato ma solo per un ammonimento con la promessa che tutto sarebbe finito lì.
Ci si può fidare di un artista? Per la mattina dopo i futuristi avevano deciso il ritorno a Milano, facile immaginare chi incontrarono alla stazione. Questa volta per i vociani ci sono anche Prezzolini, Slataper e qualche altro ancora. «Giunti a breve distanza ci lanciammo gli uni contro gli altri, alla rinfusa, rabbia indicibile. Il parapiglia generale assunse aspetti drammatici; la gente accorreva per cercare di fermare quella ridda di indemoniati» racconta Carrà. Poi di nuovo in commissariato4.
Perché raccontare con tanta attenzione di nient'altro che una rissa?
Perché a quei tempi nella letteratura si credeva, era un amore vero e incontrastato. La letteratura era ideologia, sinonimo di un modo di approcciarsi alla vita stessa. La letteratura era l'orgoglio, per cui si fa a botte per strada e si passa una notte in questura.

Serena Mauriello


1 Cfr. Stefano Lanuzza, Firenze degli scrittori del Novecento, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2001.
2 Ardengo Soffici, Arte libera e pittura futurista, «La Voce», 22 Luglio 1911, 25.
3 Ardengo Soffici, Autoritratto d'artista nel quadro del suo tempo, Vallecchi, Firenze 1951-55; poi col titolo Al caffè, in Caffè letterari, II, a cura di Enrico Falqui, Canesi editore, Roma 1962, p. 498.
4 Cfr. Mario Scaffidi Abbate, I glorosi Caffè storici d'Italia. Fra storia, politica, arte letteratura, patriottismo e libertà, Tropea, Meligrana, 2014. 

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