Abbiamo già parlato di cibo, cultura, consumo responsabile e forme di produzione che si impegnano a rientrare negli schemi della consapevolezza. E il discorso, tanto complesso quanto variegato, nel duemilaquindici che ci aspetta non farà che continuare ad articolarsi: Milano, la capitale economica d’Italia, dal prossimo primo maggio si farà in quattro per ospitare uno degli eventi più discussi degli ultimi anni: “Expo 2015”. L’esposizione universale si presenta con lo slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, e sarà animata per sei mesi dal tema dell’alimentazione, della nutrizione e annesse controverse sfaccettature. Tra cui quella diciamo “antropologica” e culturale, in cui tra una discussione e l’altra sulla fame nel mondo si porterà il visitatore verso la scoperta delle “eccellenze della tradizione agroalimentare e gastronomica di ogni Paese”.
È proprio da qui, per citarne una, che si potrebbe cominciare col discorso – assolutamente culturale – che vogliamo aprire oggi su Tutùm. Culturale perché fare cultura significa parlare di conoscenza, verità, logica e azione. Fare cultura, oltre a creare cose belle, significa anche sviscerarne delle brutte; comprendere attraverso il dialogo in che modo il mondo che ci circonda può farci riflettere.
Tornando al nostro discorso, esistono alcune persone secondo cui dietro al disegno di questa grande trovata si celano una serie di contraddizioni che cozzano in maniera piuttosto esplicita col tema centrale dell’argomento. In che modo, si chiedono in molti, Expo 2015, visti i già noti e svelati retroscena politici, potrà parlare al mondo del tema “nutrire il pianeta”?
Ho deciso di provare a dare una risposta – seppure
probabilmente incompleta, vista la vastità dell’argomento - a questa domanda, e il modo migliore per farlo mi è sembrato scambiare quattro chiacchiere con un gruppo di realtà, persone e organizzazioni che si occupa del problema da ben otto anni: la “Rete NoExpo”.
NoExpo, ad oggi, comprende circa 20 realtà ed ha iniziato a muoversi sul territorio lombardo nel 2007. A farne parte sono comitati, singoli cittadini, spazi sociali e associazioni che, fin da subito, hanno letto nel disegno di questa grande esposizione un immaginario assolutamente patinato, contraddittorio e animato da finalità esclusivamente volte al profitto. Luca, uno dei portavoce, spiega che la rete ha fatto fatica ad affermarsi sulla piazza milanese soprattutto a causa della ‘non violenza’ con cui l’evento, al contrario di altre opere come la Tav, si inserisce nel territorio: “L’esposizione coinvolge un contesto urbano, frammentario e periferico, in cui ormai non c’è più nulla da difendere. Ci siamo scontrati con un muro di gomma fatto dalle istituzioni e dall’indifferenza dei milanesi, che da sempre hanno trovato difficoltà nel comprendere cosa precisamente fosse Expo, sia come ‘materialità’ che come dispositivo di governance e ristrutturazione economica e sociale del territorio. In questi anni, dunque, abbiamo cercato di costruire una forma di consapevolezza rispetto a ciò che sarebbe accaduto, qualche volta anche palesandoci in piazza in modo da far luce e sottolineare le numerose vicende che hanno coinvolto Expo”.
Negli ultimi due anni la rete si è allargata, ridimensionata, strutturata. Ma soprattutto ha messo a punto gli obiettivi principali della sua lotta: “Innanzitutto – afferma Luca – creeremo le condizioni perché non vengano ‘fatti sconti’ ad Expo: promuoveremo eventi paralleli e alternativi a quelli che si terranno all’interno della grande fiera espositiva, tenteremo di coinvolgere e sensibilizzare gli stessi visitatori di Expo, quelli che da tutto il mondo verranno a partecipare alla fiera, continuando a fare luce sugli aspetti retorici e svelare le contraddizioni, e ci occuperemo di quel che ne sarà del cemento che è stato versato nel momento in cui tutto finirà: la nostra sfida, in quel momento, sarà batterci perché l’area non prenda la forma di un ammasso di macerie alla stregua dei residui dell’Expo di Siviglia del 1992”.
Per citare i casus belli a capo della questione, è bene iniziare da quello concernente la politica occupazionale di questo evento, che secondo la Rete può essere considerata sintesi e “precursore” di quello che vuole fare il Job Act in Italia: “E’ del 23 luglio 2013 – spiega Luca – l’accordo siglato tra Cgil, Cisl, Uil, Comune di Milano ed Expo 2015 S.p.a. in cui si determina l’assuzione a termine di 800 lavoratori e l’utilizzo di 18.500 volontari per assicurare la forza lavoro necessaria a ciò che accadrà dal primo maggio prossimo. Ma l’amministrazione Expo, nel far luce sui dati occupazionali, non ha fornito dati netti e incrementali, ma solo assoluti: in alcune statistiche per così dire ‘rubate’ alla Bocconi e poi da essa smentite, si è infatti affermato che si
sarebbero fatti 70.000 posti di lavoro, ma ad oggi le possibilità occupazionali reali non superano i 4000 posti. Ne mancano ancora 66.000 e siamo a gennaio”. La maggior parte del lavoro, ovviamente, sarà gestita dai volontari che lavoreranno gratuitamente, e da questo nasce l’hashtag #Iononlavorogratisperexpo.
Expo, con le sue dinamiche, sta ridando fiato a tanti elementi che a Milano – come d'altronde nel resto d'Italia, se non d'Europa - si trascinano ormai da tempo: privatizzione, precarizzazione, sottrazione di suolo e risorse pubbliche ai fini esclusivi di soggetti privati. Ma il discorso si articola ben oltre la mera componente occupazionale: a non essere sostenibile, infatti, non è solo il modo in cui l’evento “nutrirà” i suoi lavoratori, ma anche il modello logistico che gli fa capo: “Questa fiera – continua Luca – sarà una grande scatola vuota, calderone in cui ci sarà tutto e il contrario di tutto. Gli sponsor a cui sono stati affidati padiglioni e distribuzione di alimenti sono imbarazzanti: Monsanto, Nestlè, Coca-Cola, Dupont. In che modo il discorso ‘Slowfood’ può coesistere con chi teorizza le politiche Ogm e pratica un modello di agroindustria intensivo e inquinante? Come si può parlare di sostenibilità (tema che farà capo ad
uno dei molti incontri tematici dell’esposizione, ndr) e affidare la gestione delle bevande di Expo alle stesse multinazionali condannate per la gestione dell’acqua in Sud-America e in Africa? E sono Eataly, con il suo marketing ‘fuffa’, o la GDO di coop, i modelli sostenibili per alimentare il pianeta?” Quando si afferma che la corruzione di Expo, oltre che politica ed economica, è anche culturale, si intende proprio questo. La rete, dal 2007 e più che mai negli ultimi due anni, si sta battendo contro una retorica del cibo “priva di ogni approccio critico, in cui è sotto gli occhi di tutti lo sfruttamento del lavoro gratuito passato per opportunità, in cui saranno ospiti – e spesso anche protagonisti – Paesi la cui presenza, rispetto a questo tema, è assai discutibile: vedi Israele e i Paesi del Golfo”.
Quel che è sbagliato, secondo chi si occupa di Expo, è pensare che i problemi alimentari che affliggono il nostro pianeta si possano risolvere con dibatti e incontri tematici come “Obiettivo Fame Zero”, conferenza che sarà tenuta dalle Nazioni Unite durante la fiera: “Questo – continua il nostro intervistato – è dimostrato dai fallimenti dei piani di grandi organizzazioni come appunto l’Onu o la Fao. Nessuno, in realtà, tenterà di fare un punto sui reali meccanismi alla base di quello che è oggi il mercato agricolo, come il land grabbing, processo per mezzo del quale governi o grandi corporation, soprattutto in Africa Subsahariana, acquistano terreni dai piccoli contadini imponendo loro la coltivazione delle monoculture, o l’imposizione di modelli alimentari occidentali a paesi in via di sviluppo, o ancora il condizionamento dell’accesso all’acqua da parte delle multinazionali, le politiche Ogm e quelle di allevamento nelle grandi industrie”.
Al di là del tema, poi, Luca ricorda che “il concetto di Expo è nato nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 2014, in un’epoca in cui si comunica con gli smartphone e ci si documenta quasi unicamente sul web, tutto questo ‘hardware’ è assolutamente anacronistico, rischia di diventare un flop sia economico che partecipativo”.
C’è da fare poi un altro punto quando si parla di Expo. Un punto che dal sud al centro fino al nord di questo Paese ha da sempre scatenato non pochi problemi: quello concernente le grandi opere. Alla stregua di altre “realizzazioni” tutte italiane come quella per i mondiali di nuoto di Torino o per eventi eccezionali come il G8 nell’Aquila post-sismica o anche il G8N quando era previsto alla Maddalena, “Expo è stato gestito secondo i dettami del
modello economico e finanziario disegnato dal governo Berlusconi con la Legge Obiettivo del 2002: la creazione di un fondo doc all’interno del Piano economico e finanziario, le gestioni commissariali, la creazione di organismi di Cda ad hoc per la grande opera in cui il commissario nominato fa quel che vuole delegando a piacere, assenza di trasparenza, deroghe a normative ambientali sulle bonifiche e sugli appalti, sottrazione delle opere, dei cantieri e degli iter burocratici al controllo democratico degli enti locali interessati; tutte queste grandi opere, inoltre, entrano come voci di spesa in un unico articolo della legge 133 del 2008, in cui si destinano ben 28 miliardi alle grandi opere a discapito di scuola, cultura, ricerca scientifica e università”.
L’edificio che ospiterà l’Esposizione non è l’unica grande colata di cemento a cui è stato destinato il capoluogo lombardo in vista del primo maggio 2015: il progetto di completamento della Tangenziale Nord Milano, infatti, era un progetto chiuso nel cassetto da tempo e mai finanziato: “Nessuno – afferma Luca - voleva più proporlo vista anche l’iniziale volontà di ammorbidire il traffico automobilistico su Milano. Ma poi l’ulteriore beffa: la realizzazione delle metropolitane, unica grande opera utile, è stata una delle prima rinunce in momento di tagli”.
Ultima, ma non meno importante questione, è quella di genere e Lgbt: oltre al lavoro di Pinkwashing che stanno portando avanti le -dubbie- politiche di genere promosse dall'evento, che secondo la rete sono "perfettamente in linea con l’immagine di donna regina del focolare domestico e
“Gay street e associazioni milanesi – conclude Luca – stanno organizzando in proposito una campagna che affronta proprio il confinamento operato da Expo nei confronti delle tematiche di genere”.
Approfondimenti e dibattiti sulle tematiche Expo si terranno proprio domani presso l’Università statale di Milano dalle 10.30 di mattina. La giornata, che inizierà con una serie di workshop tematici, si concluderà con un’assemblea nazionale atta a definire il programma delle iniziative in calendario e vedrà altri collettivi, associazioni e realtà scendere per le piazze di Milano.
Dopo tutte queste risposte alle mie domande, non mi resta che chiudere in maniera semplice, lasciandovi di nuovo alla domanda iniziale (questa volta, spero, con qualche risposta in più): In che modo Expo 2015, visti i già noti e gli appena svelati retroscena politici, economici, culturali e sociali, potrà parlare al mondo del tema “nutrire il pianeta”?
Giulia Capozzi
È proprio da qui, per citarne una, che si potrebbe cominciare col discorso – assolutamente culturale – che vogliamo aprire oggi su Tutùm. Culturale perché fare cultura significa parlare di conoscenza, verità, logica e azione. Fare cultura, oltre a creare cose belle, significa anche sviscerarne delle brutte; comprendere attraverso il dialogo in che modo il mondo che ci circonda può farci riflettere.
Tornando al nostro discorso, esistono alcune persone secondo cui dietro al disegno di questa grande trovata si celano una serie di contraddizioni che cozzano in maniera piuttosto esplicita col tema centrale dell’argomento. In che modo, si chiedono in molti, Expo 2015, visti i già noti e svelati retroscena politici, potrà parlare al mondo del tema “nutrire il pianeta”?
Ho deciso di provare a dare una risposta – seppure
probabilmente incompleta, vista la vastità dell’argomento - a questa domanda, e il modo migliore per farlo mi è sembrato scambiare quattro chiacchiere con un gruppo di realtà, persone e organizzazioni che si occupa del problema da ben otto anni: la “Rete NoExpo”.
NoExpo, ad oggi, comprende circa 20 realtà ed ha iniziato a muoversi sul territorio lombardo nel 2007. A farne parte sono comitati, singoli cittadini, spazi sociali e associazioni che, fin da subito, hanno letto nel disegno di questa grande esposizione un immaginario assolutamente patinato, contraddittorio e animato da finalità esclusivamente volte al profitto. Luca, uno dei portavoce, spiega che la rete ha fatto fatica ad affermarsi sulla piazza milanese soprattutto a causa della ‘non violenza’ con cui l’evento, al contrario di altre opere come la Tav, si inserisce nel territorio: “L’esposizione coinvolge un contesto urbano, frammentario e periferico, in cui ormai non c’è più nulla da difendere. Ci siamo scontrati con un muro di gomma fatto dalle istituzioni e dall’indifferenza dei milanesi, che da sempre hanno trovato difficoltà nel comprendere cosa precisamente fosse Expo, sia come ‘materialità’ che come dispositivo di governance e ristrutturazione economica e sociale del territorio. In questi anni, dunque, abbiamo cercato di costruire una forma di consapevolezza rispetto a ciò che sarebbe accaduto, qualche volta anche palesandoci in piazza in modo da far luce e sottolineare le numerose vicende che hanno coinvolto Expo”.
Negli ultimi due anni la rete si è allargata, ridimensionata, strutturata. Ma soprattutto ha messo a punto gli obiettivi principali della sua lotta: “Innanzitutto – afferma Luca – creeremo le condizioni perché non vengano ‘fatti sconti’ ad Expo: promuoveremo eventi paralleli e alternativi a quelli che si terranno all’interno della grande fiera espositiva, tenteremo di coinvolgere e sensibilizzare gli stessi visitatori di Expo, quelli che da tutto il mondo verranno a partecipare alla fiera, continuando a fare luce sugli aspetti retorici e svelare le contraddizioni, e ci occuperemo di quel che ne sarà del cemento che è stato versato nel momento in cui tutto finirà: la nostra sfida, in quel momento, sarà batterci perché l’area non prenda la forma di un ammasso di macerie alla stregua dei residui dell’Expo di Siviglia del 1992”.
Per citare i casus belli a capo della questione, è bene iniziare da quello concernente la politica occupazionale di questo evento, che secondo la Rete può essere considerata sintesi e “precursore” di quello che vuole fare il Job Act in Italia: “E’ del 23 luglio 2013 – spiega Luca – l’accordo siglato tra Cgil, Cisl, Uil, Comune di Milano ed Expo 2015 S.p.a. in cui si determina l’assuzione a termine di 800 lavoratori e l’utilizzo di 18.500 volontari per assicurare la forza lavoro necessaria a ciò che accadrà dal primo maggio prossimo. Ma l’amministrazione Expo, nel far luce sui dati occupazionali, non ha fornito dati netti e incrementali, ma solo assoluti: in alcune statistiche per così dire ‘rubate’ alla Bocconi e poi da essa smentite, si è infatti affermato che si
sarebbero fatti 70.000 posti di lavoro, ma ad oggi le possibilità occupazionali reali non superano i 4000 posti. Ne mancano ancora 66.000 e siamo a gennaio”. La maggior parte del lavoro, ovviamente, sarà gestita dai volontari che lavoreranno gratuitamente, e da questo nasce l’hashtag #Iononlavorogratisperexpo.
Expo, con le sue dinamiche, sta ridando fiato a tanti elementi che a Milano – come d'altronde nel resto d'Italia, se non d'Europa - si trascinano ormai da tempo: privatizzione, precarizzazione, sottrazione di suolo e risorse pubbliche ai fini esclusivi di soggetti privati. Ma il discorso si articola ben oltre la mera componente occupazionale: a non essere sostenibile, infatti, non è solo il modo in cui l’evento “nutrirà” i suoi lavoratori, ma anche il modello logistico che gli fa capo: “Questa fiera – continua Luca – sarà una grande scatola vuota, calderone in cui ci sarà tutto e il contrario di tutto. Gli sponsor a cui sono stati affidati padiglioni e distribuzione di alimenti sono imbarazzanti: Monsanto, Nestlè, Coca-Cola, Dupont. In che modo il discorso ‘Slowfood’ può coesistere con chi teorizza le politiche Ogm e pratica un modello di agroindustria intensivo e inquinante? Come si può parlare di sostenibilità (tema che farà capo ad
Immagine di FalceMirtillo |
Quel che è sbagliato, secondo chi si occupa di Expo, è pensare che i problemi alimentari che affliggono il nostro pianeta si possano risolvere con dibatti e incontri tematici come “Obiettivo Fame Zero”, conferenza che sarà tenuta dalle Nazioni Unite durante la fiera: “Questo – continua il nostro intervistato – è dimostrato dai fallimenti dei piani di grandi organizzazioni come appunto l’Onu o la Fao. Nessuno, in realtà, tenterà di fare un punto sui reali meccanismi alla base di quello che è oggi il mercato agricolo, come il land grabbing, processo per mezzo del quale governi o grandi corporation, soprattutto in Africa Subsahariana, acquistano terreni dai piccoli contadini imponendo loro la coltivazione delle monoculture, o l’imposizione di modelli alimentari occidentali a paesi in via di sviluppo, o ancora il condizionamento dell’accesso all’acqua da parte delle multinazionali, le politiche Ogm e quelle di allevamento nelle grandi industrie”.
Al di là del tema, poi, Luca ricorda che “il concetto di Expo è nato nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 2014, in un’epoca in cui si comunica con gli smartphone e ci si documenta quasi unicamente sul web, tutto questo ‘hardware’ è assolutamente anacronistico, rischia di diventare un flop sia economico che partecipativo”.
C’è da fare poi un altro punto quando si parla di Expo. Un punto che dal sud al centro fino al nord di questo Paese ha da sempre scatenato non pochi problemi: quello concernente le grandi opere. Alla stregua di altre “realizzazioni” tutte italiane come quella per i mondiali di nuoto di Torino o per eventi eccezionali come il G8 nell’Aquila post-sismica o anche il G8N quando era previsto alla Maddalena, “Expo è stato gestito secondo i dettami del
modello economico e finanziario disegnato dal governo Berlusconi con la Legge Obiettivo del 2002: la creazione di un fondo doc all’interno del Piano economico e finanziario, le gestioni commissariali, la creazione di organismi di Cda ad hoc per la grande opera in cui il commissario nominato fa quel che vuole delegando a piacere, assenza di trasparenza, deroghe a normative ambientali sulle bonifiche e sugli appalti, sottrazione delle opere, dei cantieri e degli iter burocratici al controllo democratico degli enti locali interessati; tutte queste grandi opere, inoltre, entrano come voci di spesa in un unico articolo della legge 133 del 2008, in cui si destinano ben 28 miliardi alle grandi opere a discapito di scuola, cultura, ricerca scientifica e università”.
L’edificio che ospiterà l’Esposizione non è l’unica grande colata di cemento a cui è stato destinato il capoluogo lombardo in vista del primo maggio 2015: il progetto di completamento della Tangenziale Nord Milano, infatti, era un progetto chiuso nel cassetto da tempo e mai finanziato: “Nessuno – afferma Luca - voleva più proporlo vista anche l’iniziale volontà di ammorbidire il traffico automobilistico su Milano. Ma poi l’ulteriore beffa: la realizzazione delle metropolitane, unica grande opera utile, è stata una delle prima rinunce in momento di tagli”.
Ultima, ma non meno importante questione, è quella di genere e Lgbt: oltre al lavoro di Pinkwashing che stanno portando avanti le -dubbie- politiche di genere promosse dall'evento, che secondo la rete sono "perfettamente in linea con l’immagine di donna regina del focolare domestico e
Immagine di FalceMirtillo |
madre prima di tutto, depositaria di conoscenze legate al cibo, al nutrimento e alla capacità di ‘prendersi cura’ (così recita il sito di Women for Expo), che ci porta ad epoche oscurantiste e di matrice indubbiamente patriarcale”, Expo brandizzerà, assieme a Regione Lombardia, dal titolo “Difendere la famiglia per difendere la comunità”, che domani 17 gennaio potrà vantare interventi di ospiti del calibro delle cosiddette “Sentinelle in piedi”, quei tizi un po’ – tanto – conservatori che “Ritti, silenti e fermi” (così loro si definiscono) vegliano per “la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna”.
“Gay street e associazioni milanesi – conclude Luca – stanno organizzando in proposito una campagna che affronta proprio il confinamento operato da Expo nei confronti delle tematiche di genere”.
Approfondimenti e dibattiti sulle tematiche Expo si terranno proprio domani presso l’Università statale di Milano dalle 10.30 di mattina. La giornata, che inizierà con una serie di workshop tematici, si concluderà con un’assemblea nazionale atta a definire il programma delle iniziative in calendario e vedrà altri collettivi, associazioni e realtà scendere per le piazze di Milano.
Dopo tutte queste risposte alle mie domande, non mi resta che chiudere in maniera semplice, lasciandovi di nuovo alla domanda iniziale (questa volta, spero, con qualche risposta in più): In che modo Expo 2015, visti i già noti e gli appena svelati retroscena politici, economici, culturali e sociali, potrà parlare al mondo del tema “nutrire il pianeta”?
Giulia Capozzi
(@giulscapozzi)
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