mercoledì 28 gennaio 2015

"Cinquantacinque, l'età della rottamazione generale" di G. Domizi - Una premessa dell'autore...

Fotografia di Marzia Schenetti
Sto per pubblicare, in undici puntate a partire da Febbraio, la raccolta: “Cinquantacinque – L'età della rottamazione generale”. E' un'esclusiva per Tutùm Versi. Ciò significa che questo mio secondo libro di poesie sarà esclusivamente “regalato on line”, grazie al Blog di Giulia, Serena e le loro coltissime e giovani amiche. “Cinquantacinque” consta di considerazioni a largo raggio sulla mia vita (ho 55 anni), e sulla vita di ognuno. Ogni uscita, da Febbraio a Dicembre (11 uscite), sarà composta da 5 poesie brevissime, di 4 versi, e da una foto di Marzia Schenetti. La metafora della “rottamazione” è, per quanto mi riguarda, pre-renziana, ed è uno scherzoso argomento polemico che sono solito usare nei confronti dei coetanei che si ostinano a “fare i giovani”, dotandosi di selfie, liposuzioni, siliconi, brutte auto, brutte barche, brutti vestiti, invece di sciacquare, come l'età richiederebbe, la dentiera nel Polydent, ed andare a ballare la mazurka alla Casa del Popolo, in un profluvio di lambrusco e una caterva di tigelle. O andare in una fraschetta dei Castelli, e cimentarsi con porchetta e vino di Frascati. Mi riferisco ovviamente all'Emilia che mi ospita, e al Lazio in cui nacqui … ognuno potrà costruirsi un equivalente per altre regioni. 

Siccome questo più ampio genere di considerazioni in versi “sulla vita” viene in qualche modo ad affiancare, ed in parte a sostituire, le mie precedenti “insistenze” sui “rapporti di genere”, con frequenti incursioni nell'erotismo e nel porno, sento la necessità di congedare il mio demone (che aveva, fra l'altro, ispirato la rubrica in versi “PornoScorrect”, sempre all'interno di Tutùm), mediante una ricognizione critica, a posteriori. Non si tratta ovviamente di critica estetica, giacché l'autore è l'ultima persona a poter giudicare la qualità dei propri versi, ma di critica semio-sociologica … un tentativo, insomma, di spiegare il senso delle precedenti “insistenze”, e forse anche un piccolo saggio, provvisorio e parziale, sull'argomento dell'erotismo e dell'immaginazione pornografica nell'ambito dei rapporti fra uomo e donna,

Infine, per chi fosse interessato a qualche notizia ulteriore sulla mia produzione, ricordo che l'unico libro in carta da me pubblicato (e autoprodotto) si chiama “Sessantanove”, ed è, con trivialissimo gioco di parole, composto da 69 poesie prevalentemente porno. Esiste anche una pagina di Facebook chiamata “Sessantanove”: può dare un'idea approssimativa del libro (o almeno delle poesie leggibili “da tutti”), ma raramente viene aggiornata. Ulteriori poesie porno, o comunque sui rapporti fra uomo e donna, le ho pubblicate e le sto pubblicando sul mio Diario di Facebook, “regalandole”. Contemporaneamente all'avventura virtuale con Tutùm (“Cinquantacinque”), e comunque presumibilmente in vita dell'autore, dovrebbe uscire il terzo libro (secondo cartaceo): “Si impara ad amare”. Egualmente autoprodotto, millanta la noiosissima ed inutile saggezza personale, oramai precariamente raggiunta.

Leggo e cito, da Internet:
“Non è una prerogativa degli sciupafemmine più incalliti, il fatto di non badare troppo all’aspetto fisico di una donna per cercare subito di conquistarla. Bella o brutta che sia, all’uomo (ogni tipo di uomo) una “lei” va bene sempre e comunque. La prova scientifica, sotto forma di un innalzamento del livello di testosterone alla semplice presenza di una donna, arriva a conclusione di uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Hormones and Behaviour” e condotto dall´università olandese di Groningen su 63 ragazzi di età compresa tra 21 e 25 anni. Ciascun giovane è stato collocato in una stanza con una donna che non aveva mai visto prima di allora. Il risultato è stato che, dopo cinque minuti, i livelli degli ormoni maschili sono aumentati in media dell´8%. La misurazione è stata effettuata tramite campioni di saliva. In seguito, ai ragazzi è stato chiesto se fossero attratti dalla giovane con cui si erano appena trovati a parlare, e i risultati mostrano che la loro opinione a riguardo non ha influenzato l´aumento del testosterone”.

Non so se l'esperimento sia riportato correttamente; in particolare, mi insospettisce il fatto che siano state richieste “opinioni”, che rappresentano il prodotto culturale maggiormente soggetto ad automanipolazione inconscia (insomma, “la gente mente”, direbbe il dottor House) … ma “se non è vero, è ben trovato”. E l'epilogo, vero o verosimile che sia, finisce per rinforzare la ben nota descrizione dei maschi eterosessuali (fatta dalla donne, ma anche, scherzosamente, da se stessi) come esseri orientati sessualmente verso qualsiasi tipo di femmina, “basta che respiri”. Tuttavia, questa “caratteristica” non sembra impedire agli uomini di conoscere donne, corteggiarle in modo addirittura romantico, flirtare, fidanzarsi, cimentarsi in rapporti sessuali accettabili, avere un'esistenza personale in possibile evoluzione e sviluppo, sposarsi … ed anche riuscire a parlare sensatamente, talvolta, di tutte queste cose.
Considero polemica, seppure non destituita di fondamento, l'idea che questa trasformazione degli istinti avvenga per fruire di prelibatezze gastronomiche e camicie ben stirate. Più fondata la considerazione secondo cui l'enorme spazio fra il “basta che respiri” e il matrimonio venga alla fine riempito mediante un qualche misterioso suggerimento genetico e ancestrale, nonché mediante apprendimenti inconsci che si perpetuano di generazione in generazione. Comunque sia, rimane il fatto che sembra esistere una sorta di “buco nero” fra due istanze maschili reciprocamente distanti, praticamente opposte; e che la cultura ed il linguaggio si sforzano costantemente di riempirlo, mediante comportamenti, parole e “scritture” di vario genere, da quelle quotidiane-informali a quelle artistiche (letteratura, fotografia, pittura, ecc..).

Soffermiamoci sulla quotidianità delle parole. Secondo me, ogni intervento linguistico di un maschio (per esempio la descrizione del perché una donna piaccia particolarmente) frammenta quell'ipotetico “buco nero” in due distinte voragini: il PRIMA dell'apprezzamento, ed in questo caso bisognerebbe comprendere che cosa determini il parziale superamento del “basta che respiri”; ed il DOPO l'apprezzamento, ed in questo caso bisognerebbe comprendere se e come, a partire dalle considerazioni estetiche ed erotiche, venga costruita una qualche decisione conseguente, o una serie di decisioni coordinate, che portino al semplice “provarci”, all'interesse più profondo, e/o alla scelta di sposarsi. Questa è la storia personale di qualsiasi uomo, nella versione (maschio eterosessuale) che io conosco; sulle altre, non mi azzardo. Per completarla, vorrei aggiungere due cose: in primo luogo, se l'apprezzamento assume una forma scritta, “quotidiana” o “artistica” che sia, la “cultura” su cui si basa sarà più evidente (“scripta manent”), e forse più consapevole al soggetto stesso; in secondo luogo, essendo ogni forma culturale condizionata a livello psico-sociale ed economico-sociale, quindi variabile storicamente, dobbiamo dar conto di come le scelte e le decisioni esistenziali, e quindi, a monte, anche le modalità di apprezzamento e non-apprezzamento, siano state prepotentemente “centrifugate” dai Media e da Internet. Ogni tanto me la prendo scherzosamente con i maschi che gratificano di “Wow!” e “Sirena” qualsiasi volgarona malamente “postatasi”. Ma proprio la tendenziale improponibilità della relazione che si instaura per questa duplice scrittura (ovvero, la foto femminile ed il commento maschile … una relazione che è anche fortemente implausibile nella correlazione fra obiettivi e mezzi: qualche uomo avrà mai “concluso” con una donna, utilizzando come “apertura” simili apprezzamenti?), finisce per rinnovare, a maggior ragione, il quesito che sto ponendo in queste note: cosa converte il “basta che respiri” in “Wow!”? E cosa discende da quel “Wow!”? Presumibilmente nulla di fatto (con quella specifica donna); ma contemporaneamente, anche mediante questo genere di “scritture” si va a realizzare, plausibilmente, nel tempo una costante e molecolare redifinizione dei rapporti fra uomo e donna, fra maschio e femmina, e quindi “di genere”. (Ciò ci dice che i temi del patriarcato, della violenza fra i sessi, della presenza femminile nelle organizzazioni e soprattutto nelle imprese, della divisione delle cure e delle incombenze domestiche, del sesso e della coppia dovrebbero essere visti anche in relazione all'involuzione o alla precaria evoluzione attuale di uomini e donne, ed alle conseguenti espressioni culturali, in una sorta di “semiologia” delle masse; e non come singoli temi a sé stanti, che, proprio perché tali, rimarranno scarsamente risolvibili.).

Ebbene, la mia poesia parla di tutte queste cose, ed essendo mia intenzione quella di parlare di ciò che conosco, lo fa dal punto di vista del maschio eterossesuale “maturo” (quantomeno anagraficamente!). Ad eccezione delle poesie che toccano temi molto vasti (l'amore, i figli, la vecchiaia, la morte, la ribellione politica), c'è sempre un “apprezzamento”, che è “contaminato” dal suo “prima” (il “basta che respiri”), dal suo “dopo” (“cosa fare” con questa specifica donna?), o da entrambi (“prima” e “dopo”); un”apprezzamento” che si mostra in modo veritiero e sincero, e spesso, conseguentemente, ribaldo e spudorato; ma che, proprio per questo, “mostra sé”, in tutte le sue tragicomiche conseguenze, ed anche talvolta, in una sorta di recondita sublimità.


Per arrivare a questo obiettivo, non narro solamente di cose che mi sono successe personalmente, ed anzi mi avvalgo massicciamente di immaginazioni e di racconti, maschili e soprattutto femminili (il che mi induce spesso a complicate traslazioni per “rimaschilizzare”, al fine di parlare, come prediligo, in prima persona). Solo qualche volta ho parlato “da donna”, rivolgendomi a un uomo. Non sono però mai riuscito a parlare di “vera violenza” (psico-fisica), intendendo invece l'abituale cialtronaggione e “sultanaggine” maschile fra le lenzuola come una rappresentazione che è solo “apparentemente violenta”, per quanto aggressiva, ma che, se ben “rappresentata”, in modo franco, consapevole e soprattutto complice, potrebbe avere addirittura un effetto catartico. Come a dire: il maschio “fa il maschio” a letto, e francamente non credo che ci siano serie alternative; ma allo scopo di “uscirne purificati” (mediante la catarsi), ed essere finalmente compagni, e (perché no?) rivoluzionari nella vita. (Ciò capovolge il ben noto “teorema di Ferradini”: “Cerca di essere un tenero amante, ma fuori dal letto nessuna pietà”, in: “Cerca di essere un compagno indimenticabile, ma fra le lenzuola nessuna pietà”.) Comunque, la parola “obiettivo” (della mia produzione poetica) è costituzionalmente impropria, perché sono tutte considerazioni “a posteriori”, che propongo a metà avanzata della mia ricerca; e questo spiega il ridimensionamento della tematica, nonché la riconversione della mia presenza artistica su Tutùm Versi. Non pretendo che le mie poesie “piacciano”, ma che documentino in maniera espressiva ciò che effettivamente documentano: un momento di transizione della cultura maschile, nei confronti dell'amore, del sesso, della coppia, della famiglia, della pornografia, della scrittura e delle immagini. Come a dire: scrivo anche a beneficio dei “rapporti di genere”, delle future generazioni, della rivoluzione, dell'ecologia e dell'amore universale. E scrivo pertanto soprattutto per la Patria. Ebbene, sì!, PER LA PATRIA … (Pinotti! … Boldrini! …). 


Gianfranco Domizi

'Gli Ospiti' - Il grido di Maurizio Donte: "Al popolo italiano"

Al popolo italiano - Un grido al Bel(?) Paese sulle note leggere (eppure taglienti!) dei versi di uno dei nostri migliori ospiti. A noi, a voi!

Fotografia di Martina Capozzi

O popolo italiano,
con Belen t'han stordito, 
di calcio t'han riempito, 
a tua onta e disonor! 

E non ti sei accorto 
del costo che cresceva, 
del nulla che scendeva 
in tutto il tuo pagar! 

E mentre lo prendevi 
nel tenerello loco, 
soffrivi a poco a poco, 
d'un certo qual brucior! 

Se almeno fosse stato 
un aspide pungente, 
qualcosa di rovente, 
potevi tu gridar! 

Ahi! Serva Italia mia, 
da tutti sgovernata, 
tu, terra ormai bruciata, 
dall'orrido rubar! 

Non senti questo grido, 
che sale fino ai tetti, 
prorompe da quei petti, 
nel grande suo furor! 

Tu bieco governante, 
sei cieco e insuperbito, 
non sai che sei finito? 
TU TE NE DEVI ANDAR! 

Maurizio Donte

martedì 27 gennaio 2015

Maestra Poesia: Primo Levi, Se questo è un uomo


Se questo è un uomo Il 3 novembre 1948 Umberto Saba scrisse a Primo Levi «Caro signor Primo Levi, non so se le farà piacere sentirsi dire da me che il suo libro Se questo è un uomo è più che un bel libro, è un libro fatale. Qualcuno doveva ben scriverlo: il destino ha voluto che questo qualcuno fosse lei».
Auschwitz

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

stando in casa andando per via,

coricandovi alzandovi;

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.


Primo Levi nasce nel 1919 a Torino da genitori di religione ebraica. Nella città natale si laurea nel 1941 in chimica, ma, a causa dell'istituzionalizzazione della discriminazione contro gli ebrei a cui è vietato l'accesso alla scuola pubblica, nonostante sia in regola con gli esami ha notevoli difficoltà nella ricerca di un relatore per la sua tesi (discussa, per altro, con il massimo dei voti). Sul diploma di laurea figura la precisazione «di razza ebraica». Fino all'occupazione tedesca, lavora come chimico a Milano. Il 13 dicembre 1943 viene preso a Brusson per poi essere trasferito al campo di raccolta di Fossoli. È l'inizio di una lunga odissea. Il campo di Fossoli viene preso in gestione dalle milizie naziste che presto convogliano tutti i prigionieri a Auschwitz. Era il 22 febbraio 1944. Primo Levi è poi deportato a Monitz, in un campo di lavoro al servizio di una fabbrica di gomma. Levi è l’häftlingil pezzo – 174517. Funzionante. Grazie a una serie di circostanze, dopo lunghi viaggi nell'Europa dell'est, riesce a sopravvivere a quell'Inferno terreno. Il bisogno di testimoniare quanto vissuto, si fa presto manifesto. Nel 1947 il manoscritto di Se questo è un uomo viene rifiutato dall'editore Einaudi, ma accettato da De Silva. Solo dieci anni dopo, Einaudi comincerà a pubblicare i suoi lavori. Divenuto ormai un autore affermato, non smetterà mai di scrivere fino alla sua morte avvenuta l'11 aprile 1987. Dirà di lui Claudio Toscani: «L’ultimo appello di Primo Levi non dice non dimenticatemi, bensì non dimenticate».

Rubrica a cura di Serena Mauriello

lunedì 26 gennaio 2015

AsSaggi di Letteratura di S. Maurello: Italo Calvino, Le città invisibili

Max Bill, Unità tripartita
Gianni Celati parlava delle Città invisibili di Italo Calvino paragonandole al nastro di MoebiusIl nastro di Moebius è una figura presa in concessione dalla matematica topologica, sostanzialmente si tratta di un nastro congiunto ad anello dopo aver effettuato una torsione su se stesso. Grazie alla sua particolare forma, è possibile percorrerlo su ogni lato senza mai varcarne i bordi. Cosa intendeva dire, con questo, Celati? Sulla struttura delle Città invisibili, che hanno preso vita poco a poco dal 1960 al 1974, si potrebbe parlare per pagine intere, perdendosi per dover ricominciare, ritrovandosi inconsapevolmente. È un gioco di semiotica e strutturalismo, Calvino in una conferenza alla Columbia University nel 1983 disse «questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po' dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli». Spigoli che Moebius non ha senza, però, perdere la sua poliedricità.
È il 1280 circa, Marco Polo si trova alla corte di Kublai Khan. L'imperatore l'ha incaricato di visitare il suo impero per poi tornare a narrarglielo. Kublai Khan è, forse, l'uomo più potente del mondo, ha ai suoi piedi un regno i cui limiti sono inafferrabili, il mondo è suo. Eppure, quello stesso mondo che gli appartiene, non è per lui accessibile. Kublai Khan non vivrà mai abbastanza per visitarlo tutto. «Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e comprenderli». È Marco Polo a rendergli il mai divenire, con i racconti di un viaggio compiuto da nessuno, «tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra». Le città hanno nomi di donne e ognuna offre un sogno diverso, peculiare del suo essere. Adelma racchiude le anime di amici e parenti morti, Zemrude cambia seguendo l'umore di chi la guarda, Cloe dove ogni sguardo è lussuria, Bauci è sulle nuvole...
I dialoghi tra i due sono la cornice unificante del mondo romanzesco in cui si alternano cinquantacinque descrizioni di città. Impossibile riassumere in poco spazio la complessa modalità in cui si dispongono, basti sapere che i percorsi sono molteplici e che il lettore trova di fronte a se la possibilità di non seguirne nessuno. E come l'autore gioca con il lettore, così il lettore responsabile può giocare con l'autore e rendere quel mondo totalmente proprio.
Io, vi presento Leonia, in un modo o nell'atro, colei che amo di più.

"La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi da una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispettoso silenzio, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.
Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.
Il risultato è questo: più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.
Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.
Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai."



Serena Mauriello

domenica 25 gennaio 2015

La settimana politica in versi - "Preferisco le mignotte"

Preferisco le mignotteLa disoccupazione non è argomento valido in una specifica settimana, né tipico di questa. Ma ripetendosi, per molti di noi, di settimana in settimana, un breve racconto e canto se lo merita, e stavolta ho pensato che fosse il momento giusto ... anche perché, come si diceva negli anni '70, il 'personale' (e quindi, la conduzione della propria vita durante la disoccupazione, argomento della poesia) è 'politico' (e quindi, riassume esistenzialmente questioni che trascendono il singolo).



Quando m'alzo la mattina
faccio solo ciò che voglio,
colazione: pane ed olio,
caffettiera, nicotina

Dopo pranzo c'è la sega,
che s'ingegna a sodomie:
nella Rete d'eresie,
lui l'insegue e lei lo prega.

Pomeriggio con i figli,
sempre pieni di problemi ...
... tuttavia non sono scemi,
li dispenso dai consigli.

Quand'è sera mi ristoro
con un film d'Alberto Sordi,
che distragga dai ricordi
(porca troia, non lavoro).

Poi m'aggiro finch'è notte,
risparmiandomi i balordi
tutti in fila da Santoro.
Preferisco le mignotte.

Gianfranco Domizi

venerdì 23 gennaio 2015

[Per Leggere un po'] Tra Shoah e presente: L'Associazione 21 Luglio presenta il dialogo tra comunità ebraica e comunità rom a Roma

Tra esattamente quattro giorni sarà una data importante per la storia del mondo: scuole, università, televisioni e famiglie torneranno a discutere attorno agli eventi della grande distruzione, quella che dal 1933 al 1941 vide la Germania nazista sterminare circa i due terzi degli ebrei d’Europa. 
E’ una data importante quella in cui si ricorda la Shoah, e lo è più che mai nel 2015. Lo è perché, nonostante tutto, in Europa e nel mondo continuano ad esistere minoranze ghettizzate, discriminate, boicottate. Perché nonostante la memoria perpetrata in dosi massicce e più che mai documentate, esistono culture che si affiancano alla nostra quotidianamente e con le quali, ancora oggi, non si riesce ad intraprendere un rapporto di scambio, reciproca conoscenza e collaborazione.

E lo dimostrano i fatti di cronaca: lo scorso marzo 2014, a Roma, sulla vetrina di una panetteria del quartiere Tuscolano qualcuno affigge un cartello scritto a mano, in cui si avverte che “è severamente vietato l’ingresso agli zingari, anche davanti al negozio”. Ad accorgersene quasi immediatamente è l’Associazione 21 Luglio, organizzazione non profit
impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinte in Italia, e l’immagine, affiancata a quelle di due vecchi cartelli che nel 1938 in Germania e 1953 in Sudafrica vietavano l’ingresso ad ebrei e neri, inizia a fare il giro della cronaca romana e nazionale.
L’episodio, descritto così com’è, appare simile a molti altri fatti narrati dai giornali in cui disabili, autistici, gay o immigrati si sono visti rifiutati da esercenti, gruppi o istituzioni. Ma c’è una differenza: la reazione dei lettori, anziché di condanna nei confronti di ogni forma di intolleranza, è stata di solidarietà verso il panettiere intollerante:


«Ritengo assurdo che si possano difendere gli zingari!» 
( Commento anonimo – Facebook.it ).

«Trovo che con questa scusa del razzismo una persona non possa più esprimere le proprie opinioni» (Commento anonimo – Romatoday.it)

«Non mi sembra che si tratti di razzismo, ma di realismo» 
( Commento anonimo – Corriere.it )

Sono i commenti delle migliaia di “anonimi” della rete ad aver spinto i volontari dell’Associazione a svolgere la ricerca sociale che in meno di un anno ha dato vita al rapporto “Vietato L’Ingresso” (messo a disposizione da Redattore Sociale) presentato in questi giorni in occasione della Shoah:  “Il meccanismo di partecipazione alla discussione pubblica attraverso il dispositivo del commento alla notizia online [...] si pone piuttosto come un intento dichiarativo di opinioni già strutturate” , ricorda lo staff di 21 Luglio nella presentazione della ricerca. Ed è proprio per questo che, alla luce della grande memoria in difesa della tolleranza, si è voluto fare un parallelismo tra l’intolleranza di oggi nei confronti della minoranza Rom e quella di “ieri” nei confronti dell’etnia ebraica. 

È nato così il contatto con esponenti della comunità ebraica romana, che “ a cascata” si è poi allargato ad insegnanti, storici, antropologi, giornalisti e intellettuali. Alla fine del lavoro, con grande sorpresa degli stessi ricercatori, sono venute fuori ben 21 interviste in cui hanno preso parola
8 ebrei, 8 rom e 5 non ebrei e non rom.
L’idea, concretizzatasi nella terza parte del lavoro, è stata quella di mettere in scena un dialogo tra esponenti di due popoli. Dialogo volto soprattutto a decostruire quegli stereotipi che, come la testa della figura mitologica Idra, continuano a nascere sul sangue e sulle ceneri delle intolleranze passate e – apparentemente – cancellate dalla storia, dalla costruzione della "memoria".

Il motivo per cui ho scelto di introdurvi a questa ricerca sta, oltre che nella volontà di provar a dare delle risposte ai quesiti che la stampa mainstream (troppo spesso animata da toni ‘pulp’ e ‘splatter’) non dà, anche nella “storica e – veramente – politica oggettività” delle argomentazioni fornite dagli intervistati. Gli esponenti che hanno preso parola in questo rapporto non si sono fatti difensori incondizionati della comunità Romnì,  ma hanno posto su un tavolo di confronto tutta quella serie di elementi che, complessi e variegati, rappresentano oggi le radici più importanti della mancata integrazione tra la comunità rom e quella, se così vogliamo definirla, non-rom. 

Nell’esporvi ciò che più mi ha interessata non sarò ovviamente esaustiva: l’unico modo per comprendere questo rapporto è scaricarlo e gustarselo pagina dopo pagina. Ma ci sono delle cose che in particolare mi hanno colpita: la differenza tra il modo in cui comunità ebraica e comunità romnì trattano, narrano ed archiviano le proprie memorie;il razzismo istituzionale, che nelle sue sterminate forme confina sempre in “dubbio assistenzialismo” a beneficio di nessuno, e il razzismo sociale ampiamente diffuso tra gli italiani, soprattutto a causa di narrazioni distorte rispetto a quella che è la cultura rom.

Il primo punto, evidenziato soprattutto dalla ricercatrice Pupa Garribba, sta nella netta contrapposizione tra la cultura ebraica, fortemente legata al “libro” e alla trasmissione materiale della sua memoria, e quella Rom, caratterizzata invece da una forte oralità. Oralità che, peraltro, sembra stia scomparendo pure tra i suoi stessi membri: “Se non lo racconto io quando vado nelle scuole, dei 500 mila rom sterminati dal nazismo, non lo racconta nessuno! – afferma Garribba - Ma la cosa più grave è che non se la raccontano neanche più tra di loro, o perlomeno questa è la mia impressione, che si sia interrotta anche la trasmissione interna di questa memoria.”  
E’ stata poi Claudia Zaccai, tra gli altri, a mettere in luce come una minoranza, inevitabilmente, si trovi anche in una posizione di impoverimento culturale e che “quindi è il ruolo e l’obbligo dei gruppi più colti ed istruiti di mantenere i rapporti, non rinnegare le proprie radici e organizzare forme di resistenza” . La politica italiana, secondo la pedagoga, è incapace di affrontare il problema delle minoranze. È una politica che evidenzia e alimenta le differenze, soprattutto attraverso quelle dubbie forme di “assistenzialismo” da sempre perpetrate sottoforma di Campi Nomadi: “Mi ricordo bene che quando c’era la guerra civile nella ex  Jugoslavia e qua giunsero numerose comunità di origine rom – spiega Zaccai - il Ministero dell’Interno affermò che non erano necessari dei programmi di integrazione come per gli altri rifugiati, poiché era sufficiente organizzarli in campi istituzionali, dal momento che queste persone erano già abituate a questa modalità di convivenza. Questi poveracci, che rappresentavano la generazione degli integrati, ebbero enormi problemi nell’adattarsi alla vita dei campi alla quale non erano affatto preparati” .  

E la logica dei campi nomadi, ancora oggi, continua a rappresentare la più grande forma di razzismo istituzionale, il principale deterrente all’integrazione rom. È a questo proposito che Alexian Santino Spinelli ricorda come “si accettano ineluttabilmente i ‘campi nomadi’ che sono l’espressione di segregazione razziale più vergognosa e più incivile della nostra società. I rom non sono mai stati ‘nomadi’ per cultura ma gli spostamenti sono sempre stati coatti e figli della discriminazione. [...] Oggi il tanto decantato nomadismo giustifica la ghettizzazione adducendo che è nella cultura dei rom vivere in tal modo e c’è chi rispetta questa volontà. [...]milioni e milioni di euro sperperati in nome e per conto dei rom senza alcun beneficio reale per gli stessi rom” .

E se il confine che c’è tra l’istituzionale e il “socialmente diffuso” è sottilissimo, allora al razzismo dello Stato non può che affiancarsi la sua conseguenza: il rifiuto da parte della società della non-stanzialità dei rom. È a proposito di ciò che Michela procaccia, della comunità ebraica di Roma, ricorda come “il nomadismo è certamente deviante” , e come dunque sia inevitabile questa “espulsione” dei rom dal corpo sociale, alla stregua di quelle operate nei confronti “di tutti coloro che non sono produttivi - nell’ottica della società capitalista - come ad esempio i malati di mente, con una individuazione del trattamento da riservare che intende renderli produttivi”. 

Parallela al rifiuto, ovviamente, è la componente della narrazione sociale del rom: se da una parte dunque è messo in luce il totale “immobilismo” di questa comunità rispetto a una qualsiasi forma di “rivalsa”, dall’altra Amet Jasar, attore e regista che vive a Skopje, unica municipalità del mondo a maggioranza rom, evidenzia come “L’influenza principale, nella costruzione degli stereotipi, è quella della società che, fin da bambini, instilla paure e false credenze nelle giovani menti in formazione”. Detto ciò, mi viene da pensare soprattutto al modo in cui questi stereotipi e pregiudizi siano trattati dalla stampa: Sandra Terracina, biologa e coordinatrice Progetto Memoria CDEC, afferma come da sempre nella cultura mediatica italiana c’è un fondo di discriminazione nei confronti delle minoranze, di come ci sia una abitudine pubblica di parlare con leggerezza di questioni scientifiche come la Genetica e la funzione del DNA. 
“Il processo mediatico che c’è intorno ai rom – continua Dolores Barletta, 29enne rom lucana – lo conosciamo tutti. Essi sono sempre il capro espiatorio nei momenti difficili [...]. un altro aspetto da considerare è la diversità dei rom, che non è assolutamente conosciuta e approfondita da nessuno”.

È un lavoro lungo, quello svolto dallo staff di 21 Luglio. Un lavoro a cui vale la pena dedicare attenzione soprattutto per la varietà di voci che è riuscito a mettere in campo. Io, ribadisco, non sono stata esaustiva e mi sono limitata a porre in uno spazio molto piccolo le cose che più mi sono parse emblematiche. 
Tra riferimenti storici, sociologici, culturali e politici, tutte e 21 le interviste sono state intrecciate in una conclusione, e sotto il quesito “Quali propositi è necessario realizzare per promuovere un miglioramento della condizione rom e sinti?” Si elaborano gli aspetti principali della loro situazione: a partire dalla condizione di immobilismo della comunità e la sua incapacità di inserirsi nel nostro contesto mediatico e comunicativo, si arriva a discutere sulle dinamiche della nostra cultura, sulla necessità di farla dialogare con quella delle minoranze, sugli obblighi della politica lasciati incompiuti soprattutto per mezzo dell’indifferenza.
Il modo migliore per imparare dalla memoria è analizzare il presente, tirarsi fuori dai suoi stereotipi e cercare di comprenderlo senza cadere in giochi “euristici”. In occasione della Shoah, che sarà martedì, invito tutti a leggere questo volume gratuito e prendersi, ognuno a modo proprio, le risposte a quesiti che spesso cronaca  e semplicistica narrazione storica non sono in grado di dare.

A questo punto, per chiudere, vi lascio con un passo del rapporto: Alexian Santino Spinelli risponde ad alcuni aspetti comunemente oggetto di forte critica nei confronti della comunità rom, con le argomentazioni che ha ritenuto più significative:  

• I genitori rom non mandano i bimbi a scuola. 

  I genitori, soprattutto quelli che vivono nei “campi nomadi”, non hanno fiducia nella scuola che è la scuola dei gagè (non rom) che non valorizza la cultura romanì ma tende ad assimilarla. I rom vogliono l'inclusione positiva e l'interazione non l'assimilazione. 
  
i bambini vengono costretti a fare l'elemosina, ed hanno funzione di impietosire per facilitare gesti caritatevoli.  

Nel mondo rom il mondo dei piccoli non è diviso da quello degli adulti e tutti concorrono all'economia familiare. Se la famiglia è in condizioni di emarginazione e privata di ogni diritto i bambini non fanno eccezione. I bambini vivono a stretto contatto con i propri genitori.  

i bambini vengono esposti pubblicamente in maniera eccessiva.   

I bambini vivono il mondo degli adulti. E tutto ne consegue.  Le abitudini e i comportamenti sono assolutamente diversi fra le famiglie che vivono nei “campi nomadi” rispetto a quelle che vivono in casa.  

i rom che si vedono sono quelli più disagiati mentre quelli integrati non lo dicono pubblicamente e dovrebbero farlo. 

I rom italiani di antico insediamento sono certamente più integrati rispetto ai rom di recente immigrazione. I rom italiani sono fieri della loro cultura ma non si identificano nei fatti di cronaca da cui spesso prendono le distanze. Non tutti gli italiani sono mafiosi e dai fatti di cronaca prendono le giuste distanze.   

le donne rom subiscono atteggiamenti maschilisti dentro le loro famiglie. 

La società italiana è una società maschilista per eccellenza. Il mondo rom è maschilista né più e né meno come tante altre società.   

molti rom preferiscono vivere nei “campi”.  

Nei “campi nomadi” si costituiscono economie di sopravvivenza che creano dipendenza e illegalità come in tutti i ghetti. Sono fenomeni sociali non culturali. I ghetti ebraici, le riserve indiane ma la stessa italianissima Scampia a Napoli non fanno eccezione. I “campi nomadi” anche per questo vanno superati.”"


Giulia Capozzi
(@giulscapozzi )


giovedì 22 gennaio 2015

Parlanno ‘e poesia di R. Rizzo - L'umorismo di Napoli... per cominciare

Questa nuova rubrica tenuta da me, Romano Rizzo, appassionato o per dir meglio patuto della poesia napoletana, si propone di mettere nel giusto rilievo “autorucoli” e Autori con la A maiuscola attraverso la proposizione di alcune delle loro opere più significative. Mi piacerebbe, nel contempo, illustrare alcune tipologie di poesia : umoristica, lirica, descrittiva, di denuncia.. ed eventualmente intavolare costruttivi dialoghi con altri appassionati che siano o no d’accordo con le mie opinioni. Chi mi conosce, sa bene che sono un uomo che rifugge da atteggiamenti cattedratici ma che cerca di esporre le proprie idee, giuste o sbagliate che siano, in modo semplice e piano cercando di interessare all’argomento trattato il maggior numero di persone possibile. 

Ciò premesso, vorrei cominciare col darvi un brevissimo assaggio di poesie umoristiche, in cui la poesia ( o se si preferisce la esposizione in rima ) è solo la veste scelta dagli autori per narrarci qualcosa che rassomiglia ad una barzelletta. Vi avverto che c’è chi (a torto o ragione) sostiene che in questi casi non sia giusto parlare di poesia. Forse non si può respingere del tutto questa tesi, ma non si può certo negare che gli autori che Vi propongo siano dei veri e propri maestri della tecnologia espositiva. Detto questo, ecco a voi un breve assaggio di poesie umoristiche che spero possano riuscirvi gradite.


Quanno don Gustavo penza
di Ernesto Mirabelli
Quanno don Gustavo penza,
già se sape che vvò fa :
ha dda ‘a vattere â mugliera
e accussì se po’ accuità !

‘A mugliera..sape ‘o fatto
e ppe nun ‘o fa penzà,
quanno ‘o tene dint’â casa
‘o fa sempe chiacchiarià !

Ma ‘on Gustavo ll’ha capito
e ha pigliato n’ata renza…
‘a nu tiempo a cchesta parte,
primma ‘a vatte e ddoppo penza !!



Stiratoria
di Alfonso Mangione
Mo simmo addeventate male amice..
e ce scanzammo e ce vedimmo a rraro.
Essa s’è misa cu nu zarellaro,
i’ me so’ miso cu na stiratrice..

Na stiratrice ca, pe mmezza mia,
se scord’’o fierro e abbruscia ‘a bbiancaria..
e, tutt’’e vvote c alle sto vicino..,
mo abborra nu culletto o ..nu puzino !!



 Ruota di Napoli
di Alfonso Mangione
Quanno jucavo â Bonafficiata,
mo me mpignavo ‘aniello e mo ‘o cappotto;
e cchiù perdevo ‘e ssorde d’’a jucata,
cchiù m’azzeccavo dint’’o Banco Lotto.

Nzi’ a cche, nu lunnedì, pazzo d’ammore,
sgarraje cu ‘a figlia d’’o ricevitore
….e assapuraje..senza scuccià ‘o Guverno
‘e smanie ‘e n’ommo che ha pigliato ‘o terno!!


Rubrica a cura di Romano Rizzo

martedì 20 gennaio 2015

Maestra Poesia: Fernando Pessoa, Tutte le lettere d'amore sono ridicole

Tutte le lettere d'amore sono ridicole - Chi non si è mai sentito ridicolo nel pensare alle parole smielate sussurrate al proprio amante in un abbraccio di troppo? Chi non ha mai provato imbarazzo ricordando quelle lettere scritte col cuore sul bigliettino di un mazzo di rose? Non negate: Pessoa non fu il primo.





Tutte le lettere d'amore sono

ridicole.

Non sarebbero lettere d'amore se non fossero

ridicole.


Anch'io ho scritto ai miei tempi lettere d'amore,

come le altre,

ridicole.

Le lettere d'amore, se c'e' l'amore,

devono essere

ridicole.

Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto

lettere d'amore

sono 
ridicoli.


Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene

lettere d'amore

ridicole.

La verita' e' che oggi

sono i miei ricordi

di quelle lettere

a essere ridicoli.


(Tutte le parole sdrucciole,

come tutti i sentimenti sdruccioli,

sono naturalmente

ridicole).

Fernando Pessoa nasce a Lisbona nel 1888, orfano di padre a setta anni, dopo le seconde nozze della madre segue la famiglia in Sudafrica e studia all'università di Città del Capo. Nel 1950 torna a Lisbona. 
Sin dall'età di 13 anni comincia a scrivere poesie in inglese e dal 1908 anche in portoghese. Nella città natale, svolse un'intensa attività culturale all'interno di circoli letterari e riviste, scrivenfo in nome proprio e di oltre una ventina di «eteronimi», ognuno dei quali aveva una propria scheda anagrafica e un proprio stile. Da qui nasce il grande (falso) mito di Pessoa, l'autore che non pubblica gran parte della sua opera. Solo dopo la sua morte, avvenuta nella capitale portoghese nel 1935, fu pubblicata la sua opera completa in quindici volumi.

Rubrica a cura di Serena Mauriello

lunedì 19 gennaio 2015

AsSaggi di Letteratura di S. Mauriello: Esser belle nel Seicento, la donna marinista


Questo AsSaggio è uscito su Tutùm lo scorso 29 ottobre. Abbiamo deciso di riproporvelo, visto l'interesse "a suo tempo" suscitato nei lettori.


«Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace» dice un detto popolare, e mai fu più vero come nel '600.
Facendo una cernita letteraria delle donne che per secoli hanno affollato i versi dei poeti italiani fino alla fine del Cinquecento, il panorama estetico si può definire piuttosto monotonale, oltre che monocromatico. I capelli della dolce Laura erano d'oro scompigliati dal vento, e che ritratto aveva creato Dante per la sua Beatrice? «Le sue chiome erano crespe e bionde, con un adornamento di perle […] spaziosa avea la fronte; amorosa la bocca; diritto il naso; il labbro sottile; il mento breve, fesso; tondeggiante, svelta e bianca la gola; l'impostatura sul collo perfetta e il portamento sul tronco accompagnato da alcuna alterezza», ha risposto per noi nel 1832 Melchior Missirini nel suoDell'Amor di Dante Alighieri e del ritratto di Beatrice Portinari. A vincere il premio del più imitato del Cinquecento è tuttavia Petrarca grazie al successo inaudito delle Prose della volgar lingua bembiane che lo sancirono come canone, tuttavia il panorama della bellezza muliebre non sarebbe mutato di molto se il grammatico veneto avesse scelto l'Alighieri come prediletto. Sembra quasi che le donne del passato fossero tutte uguali, anche senza l'uso della chirurgia estetica.
Poi arriva Marino e succede qualcosa. La poesia cambia, la retorica muta, le immagini si fanno ardite. Il Seicento è il barocco, è artificio retorico, è il molteplice. È l'amore per la metafora, il gusto per il saper concludere un sonetto con una tensione sensibile che sappia esplodere sul finale. Uno schiaffo al passato per rivolgersi a tutto ciò che non è mai stato. Marino dal petrarchismo è lontano anni luce e lo afferma esplicitamente presentandosi come padre della nuova poesia. Come ricordano Cudini e Conrieri nel loro Manuale non scolastico di letteratura italiana il processo moltiplicativo investe anche l'aerea erotica: l'immagine di una giovane dalle fattezze perfettamente equilibrate, dal volto divinamente simmetrico incorniciato con in una chioma aurea, si diffrange in una serie di belle dalla differente figura.
Differente, tuttavia, è dir poco.
Il campionario della bellezza marinista accoglie ogni tipo di donna, senza indiscrezioni.
E finalmente le donne non sono più bionde.
Eccole, una dopo l'altra, la bella pidocchiosa, la bella zoppa, la bella con gli occhiali (sarà nato proprio nel Seicento il fascino della segretaria?), la bella nana, la bella gobba, la bella mendica, la bella spiritata, la bella a cui manca un dente, e la più sensuale di tutte: la bella con la pulce sulle poppe. L'elenco potrebbe continuare ancora, ma fermiamoci qui per il momento. I marinisti le amano tutte, e senza farsi troppi problemi godono di ogni loro difetto perché è proprio esso a rendere la loro bellezza unica e diversa dalle altre.
Io ora vi lascio in compagnia di due bellezze seicentesche, e già che ci sono posso posticipare l'appuntamento dal parrucchiere di una settimana.


Giuseppe Artale, Pulce sulle poppe di bella donna

Picciola instabil macchia, ecco, vivente
in sen d'argento alimentare e grato;
e posa ove il sol fisso è geminato
brieve un'ombra palpabile' e pungente.

Lieve d'ebeno star fera mordente
fra nevosi sentier veggio in aguato,
e un antipodo nero abbreviato
d'un picciol mondo, e quasi niente un ente.

Pulce, volatil neo d'almo candore,
che indivisibil corpo hai per ischermo,
fatto etïopo un atomo d'amore;

tu sei, di questo cor basso ed infermo
per far prolisso il duol, lungo il languore,
de' periodi miei punto non fermo.


Giovan Leone Sempronio, La bella zoppa

Move zoppa gentil piede ineguale,
cui ogn’altra è ineguale in esser bella;
e così zoppa ancor del dio che ha l’ale
sa le alate fuggir auree quadrella.

Tal forse era Euridice, e forse tale
era Venere a l’hor che a questa e a quella
morse il candido pie’ serpe mortale,
punse il candido pie’ spina ribella.

Consolisi Vulcan; ché se talora
mosse il suo zoppicar Venere a riso,
oggi sa zoppicar Venere ancora.

E certo questa dea, se il ver m’avviso,
solo il tenero pie’ si torse a l’ora
ch’ella precipitò dal paradiso.



Serena Mauriello

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