lunedì 21 settembre 2015

[Poeti in Pillole] - Giovanni Della Casa: il petrarchismo fuori maniera

«Avendo provato tutti i volti all'imitazione del Petrarca, solo egli fu il primo
ad uscir da questa via, trovando una maniera peregrina, piena non meno 
di novità che di maestà, facendo le pose non mezzo de' versi,
 e tenendo il lettore sospeso con piacere e con meraviglia»
Torquato Tasso


C'è stato un periodo della storia della nostra letteratura in cui il modo di poetare sembrava poter essere uno solo. Dopo il susseguirsi delle tre corone, Pietro Bembo aveva tirato le file della grande questione su quale fosse il linguaggio corretto della poesia e su come le parole ad esso appartenute dovessero legarsi l'un l'altra. Nacquero così Le prose della volgar lingua, un decreto tutto a favore di Petrarca. Era il 1525 e da quel momento, con il volumetto d'istruzioni alla mano, la poesia petrarchista divenne possibile per tutti. Scrivere era anche sinonimo di affermazione sociale, la poesia, in particolar modo il sonetto, si presentava come una combinazione possibile grazie all'utilizzo di una normatività fissa, regole ferree generatrici di esercizi di stile che vedevano la loro massima espressione nei centoni, ovvero dei componimenti costruiti tramite l'innesto di versi altrui. 
Wenclesas Hollar, Giovanni Della Casa
Questo è il contesto in cui prende forma la poesia di Giovanni Della Casa, petrarchista fuori maniera. Quando seguire le regole era ormai divenuto l'unico modo di poetare, Della Casa decise di sovvertire il mondo, ma dall'interno. Gli strumenti bembiani ci sono tutti, ma nei suoi componimenti sono manipolati con una destrezza tale da poter stravolgere la dolcezza monocorde presente nelle schiere di imitatori del Petrarca e mutarla in una gravità inaudita. Maestro della gravitas, Della Casa riforma la metrica rispettandola, rompe gli equilibri generandone di nuovi in un'elaborazione tecnica che va oltre il semplice manierismo dimostrando il vero genio poetico: distrugge un sistema abilmente rispettandolo.




Cura, che di timor ti nutri e cresci,
e più temendo maggior forza acquisti,
e mentre con la fiamma il gielo mesci,
tutto 'l regno d'Amor turbi e contristi;

poi che 'n brev'ora entr'al mio dolce hai misti
tutti gli amari tuoi, del mio cor esci;
torna a Cocito, ai lagrimosi e tristi
campi d'inferno: ivi a te stessa incresci,

ivi senza riposi i giorni mena,
senza sonno le notti, ivi ti duoli
non me di dubbia che di certa pena.

Vattene: a che più fera che non suoli,
se 'l tuo venen m'è corso in ogni vena,
con nuove larve a me ritorni e voli?

***

Questa vita mortal, che 'n una o 'n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda, involto avea fin qui la pura
parte di me ne l'atre nubi sue.

Ora a mirar le grazie tante tue
prende ché frutti e fior, gielo e arsura,
e sì dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.

Anzi 'l dolce aer puro e questa luce
chiara, che 'l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d'abissi oscuri e misti:

e tutto quel che 'n terra e 'n ciel riluce
di tenebre era chiuso, e tu l'apristi:
e 'l giorno e 'l sol de le tue man son opre.

***

La bella Greca, onde 'l pastor Ideo
in chiaro foco e memorabil arse,
per cui l'Europa armossi, e guerra feo
e altro imperio antico in terra sparsa;

e le bellezze incenerite e arse
di quella, che sua morte in don chiedeo;
e i begli occhi e le chiome a l'aura sparse
di lei, che stanca in riva di Peneo

novo arboscello a i verdi boschi accrebbe;
e qual altra, fra quante il mondo onora,
in maggior pregio di bellezza crebbe,

da voi, giudice lui, vinta sarebbe,
che le tre dive(o sì beato allora!)
tra' suoi be' colli ignude mirar ebbe.


Serena Mauriello


Bibliografia:
Andrea Afribo, Teoria e pratica della gravitas nel Cinquecento, Firenze, Franco Cesati, 2002.
Cesare Segre, Carlo Ossola, Antologia della poesia italiana, Cinquecento, Torino, Einaudi, 1997.


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