martedì 1 settembre 2015

[Percorsi Fotografici] - Attraverso il self-portrait: volti e modi dell'immortalarsi

Alex Currie, in rain or shine
Che fosse per controllarlo, comprenderlo o elaborarlo, la fotografia ha sempre avuto quell’affascinante fine ultimo di indagare su una certa realtà oggettiva del mondo. Inizialmente i suoi strumenti erano ingombranti, lenti, sconosciuti, e le modalità di approccio al mezzo da parte del fotografo restavano circoscritte alla raffigurazione di un mondo più reale e oggettivo che artistico e interiore. A cavallo tra IXX e XX secolo l’attenzione verso il soggetto era costretta a limitarsi spesso a ore di duro e tecnico professionismo.
Ma col Novecento inizia a cambiare qualcosa: l’avvento del secolo prefigura sviluppi tecnologici di straordinaria portata; il fotografo familiarizza, sperimenta e discute con la sua macchina di fronte a un soggetto che diventa mutevole e variegato: talvolta circoscritto all’istante dello scatto, altre volte più sfuggente e etereo.
Si susseguono le ondate d’Avanguardia, e soprattutto a partire dagli anni Cinquanta non possono che insidiarsi nel fotografo tutta quella serie di valori che porteranno verso un progressivo stravolgimento dell’espressione artistica. L’artista muta, capovolge le sue prospettive, esce dalle righe e dalle luci ordinarie dei modi di fotografare; il suo soggetto entra in relazione con la contemporaneità: non è più oggetto, ma deve passare attraverso la fisicità del fotografo all’interno dello scatto. Immortalarsi per sfuggirsi, interpretarsi, mettersi alla prova. Nasce il  self-portrait.



Arno Rafael Minkkinen è finlandese, ma si forma alla Rhode Island School of Design  e vive tutt’ora negli Stati Uniti. La sua entrata in scena nella fotografia avviene all’inizio degli anni Settanta, e subito il soggetto è rappresentato dal suo stesso corpo. Gli scatti lo vedono posare completamente nudo in mezzo alla natura, e avvolte da un senso di geometrica solitudine  le sue pose assumono linee complesse, tavolta surreali1;  a partire dagli anni Ottanta lascia che a penetrare garbatamente nelle sue immagini, a fianco a lui, siano anche altri corpi.








“Molte delle mie fotografie sono difficili da scattare. Alcune possono essere addirittura pericolose”2. Minkkinen non ha assistenti: l’atto fotografico è a sua completa esperienza e disposizione.
Le sue possono apparire come fotografie semplici,la post-produzione è assente nella maggior parte dei suoi lavori. Ma il loro obiettivo è quello di mettere alla prova i limiti che un corpo umano è in grado di correre in condizioni estreme.
 “Per questo li definisco autoritratti, in modo che l’osservatore sappia  chi è il soggetto della foto e chi l’ha scattata”.
Attualmente Minkkinen è professore di arte all’Università del Massachusetts Lowell, e nonostante i suonati settanta, la sua ricerca fotografica nei confronti degli orizzonti di sperimentazione del corpo umano continua a non fermarsi.


E se sperimentare può significare anche provare a cristallizzarsi nei contesti degli ambienti – naturali o culturali - che ci circondano, le performance fotografiche di Cindy Sherman aprono un sipario che si pone in maniera differente rispetto ai modi del fotografo finlandese.
Sherman non si definisce una fotografa: è un’artista performativa. Il critico Verena Luken ha definito le sue immagini performance congelate3, ma è la macchina fotografica l’unico medium per cui le scenografie vengono preparate.
Il suo primo importante lavoro è “Untitled Film Stills”, in cui la si vede “sminuzzata” in tanti piccoli pezzi di scenografie cinematografiche su una serie di films  in bianco e nero; le immagini riprendono cliché e stereotipi di stampo prettamente hollywoodiano, e il continuo gioco su travestimenti e finzione filmica sembra nascere come una forma di ricerca delle molteplici dimensioni del sé in definite, geometriche entità: la fragilità dell’io dinanzi ai meccanismi di identificazione e riconoscimento dell’industria culturale.








Buona parte della critica osservò con interesse ed entusiasmo gli Untitled Film Stills. Ma la Sherman, in un modo o nell’altro, aveva toccato con le sue immagini un nervo scoperto nel mondo delle intellettuali.
Era a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, infatti, che le riflessioni del femminismo di seconda ondata iniziavano a dare i primi frutti. Il distacco dalla cultura del maschio appariva come principale passo verso nuove forme di emancipazione femminile, e l’appello delle studiose era dunque chiaro: la cultura dominante costruisce i suoi modelli su una mistica della femminilità che è progettata in e per un mondo maschile e maschilista; che artiste, scrittrici e pensatrici prendano distanza da quel mondo.
I films della Sherman vennero considerati come “del tutto acquiescenti verso gli stereotipi imposti alla donna nella società”4, ma in realtà i suoi intenti erano del tutto volti a una sorta di curiosa parodia. Forse incubatori della sua futura ricerca  sulgender.




La terza tappa del nostro viaggio ha come protagonista il corpo di una giovane e controversa donna, scoperta solo anni dopo la sua morte ma trasformata dall’attenzione della critica in una delle figure più emblematiche della fotografia del Novecento: Francesca Woodman.
Woodman nasce a Denver nell’aprile del 1958; figlia di artisti riconosciuti internazionalmente, riceve la prima macchina fotografica a tredici anni  e il suo precoce rapporto con la fotografia è subito animato da straordinaria sperimentazione e consapevolezza. La ricerca sul proprio corpo prende il via all’età di soli quindici anni, quando inizia a posare completamente nuda nella sua camera da letto tra giochi di doppie e lunghe esposizioni.
Le sue sono immagini in cui il corpo, mai fotografato interamente, appare spettrale e indefinito, quasi di passaggio all’interno delle studiate composizioni; l’elemento principale nelle fotografie della Woodman, infatti, è la forte contrapposizione tra la sua figura, sempre eterea, e gli ambienti che la ospitano: geometrici, architettonici, decadenti. Proprio come il mondo che la circonda e soffoca, dal quale con ogni scatto tenta di fuggire.









Tra il 77 e il 78 vince una borsa che le permette di studiare a Roma, ed è proprio questo il periodo in cui le sue opere si riempiono dello stile e dell’intensità per cui ancora oggi è ricordata: l’esperienza romana si fa densa di incontri, scatti, prospettive; i mercatini di Porta Portese diventano meta principale per l’acquisto del vestiario che la ritrae nella maggior parte degli scatti e gli edifici abbandonati di San Lorenzo scenografie predilette dei nudi in cui si immortala. 5
Francesca Woodman è ricordata da tutti per la sua apparente ironia e semplicità, ma l’angoscia nei confronti del suo corpo, involucro al quale sembra voler restare estranea e avversa, e di quel mondo dal quale continuamente si sente assorbita e catturata, ebbe la meglio sulla sua vita in un freddo gennaio del 1981.
Poco prima di gettarsi da un grattacielo di Manhattan, l’artista lascia ad un amico alcuni diari e un fogliettino con su scritto: “Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare tutte queste cose delicate”.
6

Con gli anni Ottanta e Novanta la manipolazione delle fotografie inzia a passare attraverso i nuovi strumenti digitali: nello studio del professionista approda Photoshop e l’analogico intraprende il suo irreversibile cammino verso l’obsolescenza. I dispositivi si fanno sempre più compatti, economici, craccabili: nascono gli smartphone, e con loro la comoda, divertentissima doppia fotocamera. Siamo ai tempi del selfie, quella forma di autoscatto che troppo spesso, e assai erroneamente, viene confusa dai più con l’autoritratto concettuale di cui fin qui si è parlato.

Cosa accade al self-portrait nell’era dello sharing e dei selfie? I background delle vacanze estive vanno a sostituire le complesse composizioni fotografiche? I filtri di Instagram si sovrappongono alla post-produzione professionale? La risposta è indubbia, quasi retorica: no. Elemento complementare alle gallerie d’arte, infatti, è diventato il web, e uno dei siti più importanti in cui fotografi espongono oggi i propri lavori è Flickr:  proprio tra le sue mura virtuali alcuni giovani artisti presentano le nuove forme di autoritratto.

Una di questi è Silvia Grav, giovane artista madrilena nel cui stile non si fatica a riconoscere la forte influenza da parte di Francesca Woodman.
Le sue fotografie, prevalentemente in bianco e nero e arricchite da una post-produzione che assume forme spettrali, eteree e spesso quasi fantascientifiche, raffigurano un mondo fortemente surreale, in cui spicca la continua contrapposizione tra il corpo umano e l’universo che lo circonda.






Il suo non è un tentativo di fuggire al corpo: la sua fotografia rappresenta un aspetto particolare di se stessa, la più difficile e consistente componente del suo essere: la tristezza.
“L’oscurità – spiega l’artista in un’intervista7 – è qualcosa che non posso evitare allo stesso modo in cui non posso evitare questa predisposizione interiore che ho nei confronti della morte. Alla fine [la mia fotografia] è un mix del mio lato oscuro, del mio bisogno di salvezza, della necessità che ha il mio io di essere ascoltato, e del senso di libertà (e prigionia) che si trova in tutte queste cose”.

Silvia Grav rappresenta solo un tassello del mosaico di artisti che sta affrontando l’autoritratto concettuale nell’era del digitale. Grazie ai nuovi strumenti, i “Ragazzi di Flickr” stanno approfondendo e sviluppando la possibilità del self-portrait di indagare e costruire mondi surreali, sempre più intimi e interiori.



A cura di Julia e Martina Capozzi



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