«A
pochi scrittori è stato concesso, come lo fu al Tasso, di vivere e
rappresentare le aspirazioni e le frustrazioni del proprio tempo in
maniera che può ben dirsi emblematica. L’esistere e lo scrivere,
pur intrattenendo in lui relazioni difficili e complesse, non tendono
mai a dissociarsi e a procedere separatamente; e non solo perché la
poesia nasce con difficoltà dall’esperienza della vita concreta e
quotidiana, ma perché di tale esperienza è talvolta origine e
spesso redenzione»
Marziano
Guglielminetti
Jacopo Bassano, Torquato Tasso ventiduenne |
In ogni modo Torquato Tasso cercò di
liberarsi dalla sua melanconia:
purghe all'eleboro nero,
salassi, medicamenti a base di mandragola, solano, papavero e molto
altro ancora1.
Il suo corpo era «pieno di cattivi umori»2
e purgare «lo stomaco da cui ascendono alcuni vapori che perturbano
il discorso e il ragionamento» appariva l'unica soluzione3.
Ben presto si accorse che a quell'incubo non vi era rimedio,
l'internamento di sette anni nell'ospedale di Sant'Anna fu il
raggiungimento di un punto di non ritorno.
Nelle sue Lettere d'umor malinconico è chiara quanto fosse grande in Tasso la consapevolezza della propria malattia, spesso rappresentata come una chimera o ancora come una rapida corrente così travolgente da non permettere la liberazione. Come ha sottolineato Lisa Roscioni, nel Cinquecento la possibilità di guarigione completa non era neanche presa in considerazione, l'idea del rilascio da un centro di cura, se così le strutture dell'epoca possono essere chiamate, arriva tardivamente. Il ruolo della terapia era piuttosto lenitivo, l'obiettivo era quello di alleviare una sofferenza connaturamente eterna.
Nelle sue Lettere d'umor malinconico è chiara quanto fosse grande in Tasso la consapevolezza della propria malattia, spesso rappresentata come una chimera o ancora come una rapida corrente così travolgente da non permettere la liberazione. Come ha sottolineato Lisa Roscioni, nel Cinquecento la possibilità di guarigione completa non era neanche presa in considerazione, l'idea del rilascio da un centro di cura, se così le strutture dell'epoca possono essere chiamate, arriva tardivamente. Il ruolo della terapia era piuttosto lenitivo, l'obiettivo era quello di alleviare una sofferenza connaturamente eterna.
L'allucinazione
e l'angoscia insieme al disturbo depressivo accompagnarono il poeta
fino alla morte. Negli ambienti di corte fu certo motivo di
pettegolezzo quando, in uno dei momenti in cui l'aggravarsi della
malattia aveva preso il sopravvento, Tasso non esitò a lanciare un
coltello a un servitore. Era sera, nella camera da letto della della
principessa Lucrezia d'Urbino il poeta era impegnato in un colloquio
privato e la convinzione che quel servitore fosse lì proprio per
origliare le sue parole prese il sopravvento4.
I suoi continui viaggi sembrano essere più delle fughe dal mondo. Le
tappe si susseguono l'una dopo l'altra: Sorrento, Roma, Mantova,
Padova, Venezia, Pesaro, e ancora Torino dove è ospite di Filippo
d'Este. Nel 1579 ritorna a Ferrara proprio mentre si stanno
celebrando le nozze del duca con Margherita Gonzaga. Durante la
serata Tasso non si sente trattato bene, non si sente minimamente
preso in considerazione e ancora una volta non riesce a contenersi.
Inveisce contro il duca, la sua famiglia, urla mentre lo trascinano
via nelle anticamere del palazzo dove continua a gridare tutta la sua
indignazione. Il duca lo fa arrestare, internare nell'ospedale di
Sant'Anna incatenato. Con il tempo la clausura a Sant'Anna viene
mitigata e la scrittura diventa l'impegno preponderante delle sue
giornate. La consapevolezza della propria condizione è evidente tra
le righe di ogni testo.
Non si
tratta di giudicare la follia di Tasso, non ci interessa la
psichiatria e tanto meno le diagnosi. Quello che conta è che la
vicenda psichica di Tasso fa parte della sua esistenza, è
un'esperienza della sua vita che lo rende, in quanto intima, unico a
suo modo. O meglio, rende il suo sguardo sul mondo unico. Il segno di
una fantasia che lievita tra allucinazione e realtà, che sa cogliere
i dettagli del mondo, che riesce a comprendere il «non so che»
delle cose. La sua è una sensibilità dolente e turbata5,
e la Gerusalemme liberata
è dimostrazione di questo suo modo di vivere la scrittura
tremendamente legato al proprio essere. Il capolavoro mai
riconosciuto dai suoi contemporanei, con fatica riscritto in una
seconda versione la cui genesi divenne incubo e ossessione, la Gerusalemme conquistata,
ha in ogni suo emendamento un attacco al sé del poeta, al suo
essere, alla sua intimità.
Serena Mauriello
1
Cfr. Lisa Roscioni, Il governo della follia: ospedali e pazzi
nell'età moderna, Milano,
Mondadori, 2003.
2
Torquato Tasso, Lettere d'umor malinconico,
a cura di Carla Molinari, Parma, Guanda, p.83.
3
Ivi, p. 7.
4
Cfr. Francesco d'Ovidio, Studii sul Petrarca e sul Tasso,
1926.
5
Cfr. Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura
italiana, vol 2, Milano, Nuova
Italia, 1941.
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