lunedì 28 settembre 2015

[Poesia Femminista #2] - La donna forte, la donna sola: ritratto di Gabriela Mistral

“Dammi la forza anche nel mio solitario abbandono di donna, e di donna povera; fa che io disprezzi ogni potere che non sia puro, ogni pressione che non sia quella della tua ardente volontà sulla mia vita.”

È il 1904 quando sulle pagine del giornale cileno El Coquimbo escono i tre componimenti in versi Ensonaciones, Carta Intima e Junto al Mar;  la loro forza espressiva è notevole, ma alla maggior parte dei lettori le informazioni che riguardano l’autrice sono avvolte da un’insolita aura di mistero. In pochi sanno che è una quindicenne piuttosto matura per l’età che ha, e nessuno, lei compresa, immaginerebbe mai che il suo nome verrà ricordato un giorno per esser quello della prima autrice latinoamericana ad aver ottenuto il Premio Nobel per la Letteratura.
La ragazzina si chiama Lucila Goday Alcajaga, ma in futuro sarà da tutti conosciuta come Gabriela Mistral.

Lucila nasce a Vicuña, rurale paesino del Cile centrale, nell’aprile del 1889. La sua è un’infanzia povera, difficile, che la porterà a fare ben presto i conti con i dolori della vita; lei e sua madre vengono abbandonate dal padre molto presto, e la necessità di mantenere finanziariamente la sua famiglia la porta verso l’ unica prospettiva di  vita indipendente per una ragazza povera: quella dell’insegnamento. A quattordici anni comincia a lavorare come supplente in una scuola elementare della sua città, e proprio in questo periodo appaiono sui giornali le prime pubblicazioni da poeta autodidatta. Lucila è una ragazza fortemente spirituale: lettura prediletta delle domeniche che trascorre a casa della nonna sono la Bibbia e Dante, e la sua è una poesia precocemente permeata dalla tematica del dolore, della sofferenza interiore. Questa tendenza non farà che accentuarsi dopo il grande dolore ottenuto dal suicidio di Romeo Ureta, controverso amore adolescenziale e unico uomo della sua vita, e in seguito a questo tragico evento, la morte sarà protagonista della sua poetica come mai avvenuto nella storia della poesia latinoamericana.
Nel dicembre del 1914 è vincitrice del premio di letteratura nazionale Juegos Floreales; la competizione la vede apparire per la prima volta con lo pseudonimo di Gabriela Mistral (Gabriela come il D’Annunzio, Mistral come Frederik), e le sue poesie raggiungono fama nazionale.
Nel frattempo Gabriela si è dedicata tanto all’insegnamento e all’attivismo da aver fatto conoscere il suo valore a molti docenti della scena cilena; tra questi c’è anche un certo professor D. Pedro Aguirre Cerda, che sarà eletto ministro dell’Educazione del Cile qualche anno dopo e che da quel momento le procurerà incarichi sempre più importanti: la direzione di un liceo femminile a Punta Arenas – terra che le ispirerà innumerevoli versi sul Cile, poi a Temuco e infine a Santiago, la capitale.
Ed ecco che velocemente compaiono incarichi internazionali: nel 1922 Gabriela viene chiamata in Messico a capo di una commissione inviata ufficialmente dal Governo del Cile. L’incarico, ottenuto dal Ministro all’Educazione, è quello di far risalire il tasso di scolarizzazione nel paese: per la prima volta si vedono passeggiare per le zone rurali e remote delle terre messicane le biblioteche mobili. 
Da qui alla fama il passo è breve, e nel giro di dieci anni la Mistral diventa una delle personalità più apprezzate nel mondo della poesia, dell’attivismo e dell’educazione. Nascono le raccolte poetiche più emblematiche (Desolaciòn, Lectura para Mujeres, Ternura), e le pubblicazioni in prosa che più la rispecchiamo come attivista per le fasce deboli della società: parlerà di panamericanismo con cinquant’anni di anticipo, lavorerà alla dichiarazione dei diritti dei bambini all’Onu, sarà convinta antifascista ma anche sospettosa del comunismo; i confini della carriera di docente e politica si estendono oltre l’America Latina,  la vedono approdare in Europa e negli Stati Uniti, e assieme a lei viaggia anche la drammatica delicatezza dei suoi versi.


I temi essenziali delle sue liriche  ruotano per tutto l’arco della sua attività attorno ad alcune figure fondamentali: la morte, la fede, il folklore delle sue terre e la maternità. Canterà del popolo, della cura dell'infanzia e della libertà, ma anche del suo essere donna lesbica, vergine, sola. Regalerà spesso al lettore ritratti della popolazione cilena, delle sue usanze e dei suoi dolori, ma i suoi versi non tratteranno mai direttamente la tematica di genere. È impossibile, infatti, identificare il pensiero di Gabriela Mistral negli schemi del femminismo: fu piuttosto critica con i movimenti a lei contemporanei; ma è assolutamente lecito affermare che molta della sua poesia e prosa contribuirà in maniera determinante a difendere gli ideali di emancipazione femminile nel contesto politico e sociale del Cile. Mistral sarà sempre una radicale sostenitrice dell’importanza dell’istruzione delle ragazze, del voto e dell’affermazione dell’identità femminile all’interno della società, e molti dei suoi articoli, attraverso l’appassionata narrazione delle madri e dei loro sforzi nel lavoro di tutti i giorni, plasmeranno numerosi dibattiti attorno alla tematica di genere.

Secondo il critico letterario Savedro Molina, la maggior parte delle sue liriche “non sono opera pedante o dilettevole”, ma veri e propri “frammenti di vita”; il suo verso sembra sorgere “incandescente dalla fucina interiore dell’emozione in cui a lungo si è forgiato e, al tempo stesso, avvolto dalle fiamme di un pensiero in fermento perpetuo”. Il mondo che la Mistral porta in sé è immenso e complesso, e i suoi versi non sono che il riflesso di una profonda, esuberante interiorità. Nelle sue poesie non si individuano nodi teorici volti a contribuire alla letteratura femminista, ma la sua intera opera poetica è costantemente fusa a quella di attivista e educatrice e può essere forse definita come uno dei primi lavori di scrittura (o ri-scrittura) di una soggettività femminile forte, determinata e pregna di identità.



L'amore che tace:

Se ti odiassi, il mio odio ti darei
con le parole, rotondo e sicuro;
ma ti amo e il mio amore non si affida
a questa lingua umana, così oscura!

Tu lo vorresti mutato in un grido, 
e vien così dal fondo che ha disfatto
la sua ardente fiumana, sfinito
prima ancor della gola e del petto.

Io sono come uno stagno ricolmo
ed a te sembro una sorgente inerte,
per questo mio silenzio tormentoso
più atroce che l'entrare nella morte!


Tre alberi:

Tre alberi caduti
restarono sull'orlo del sentiero.
Il boscaiolo li scordò e conversano
come tre ciechi, uniti dall'affetto.

Versa il sole del tramonto
il vivo sangue sopra i tronchi tagliati
e si portano i venti la fragranza
del lor costato aperto!

L'uno, ritorto tende
il braccio immenso e tremulo di foglie
verso l'alto e son le sue ferite
come due occhi, pieni di preghiera.

Il boscaiolo li scordò. La notte
verrà. Con essi resterò.
Accoglierò nel cuore le loro dolci resine.
Saranno per me come fuoco.
E muti e stretti,
in doloroso cumulo il giorno ci ritrovi.

A Amira de la Rosa:

Finché nel mondo c'è luce
ed è sveglio il mio bambino,
a fiore del suo volto
è tutto un ammiccare.

Gli fa cenni la pioppaia
con le sue pallide dita,
e dietro ad essa vengon nubi
saltellando come capretti.

La cicala, a mezzogiorno,
lo saluta col suo stridio
mentre l'agile brezza
smuove il suo pannolino.

Al giunger della notte
il grillo saluta sornione
e le stelle nell'apparire
santamente ammiccheranno.

E io dico all'altra Madre.
rigata da tutte le strade:
"Fa' che dorma il tuo bambino
affinché dorma anche il mio!"

E la molto gentile,
solcata dalle strade,
mi risponde: "Fa' dormire 
il tuo, perché il mio dorma!"


L'altra:

Una donna ho ucciso in me;
io non l'amavo.

Era il fiore fiammeggiante
del cactus di montagna;
era fuoco e aridità;
e mai si rinfrescava.

Aveva pietra e cielo
ai piedi e sulle spalle
e non scendeva mai
a cercare "occhi d'acqua".

Dove la siesta faceva
si acchiocciolavano l'erbe
al fiato della sua bocca,
alla brace del suo volto.

Si induriva la parola
in resine rapide,
per non cadere bella
preda, se libera.

Piegarsi non sapeva
la pianta di montagna,
ed al suo fianco
io mi piegavo...

Lasciai che morisse,
rubandole le mie viscere.
Si estinse come l'aquila
che non è più nutrita.

Smorzò il battito d'ale
e si piegò afflosciata;
cadde nella mia mano
la sua favilla esausta...

Le sue sorelle ancora
per lei con me si lagnano,
 e le argille di fuoco
mi straziano al passaggio.

Io dico nell'incontro:
"Cercate nei rigagnoli
e fate con le argille
un'altra aquila ardente.

Se non potete, allora,
ahimé, dimenticatela.
Io l'ho uccisa. Così
anche voi uccidetela!"


A cura di Julia

[A una compagna. Che il percorso della sua vita possa essere ardente come le passioni che ci hanno fatto incontrare...]


Bibliografia:

Gabriela Mistral, "Desolaciòn, Ternura, Tala, Lagar", Arnoldo Mondadori Editore, 1968

Ibid., pg XXXIV

Sitografia:



Wikipedia, "Gabriela Mistral"






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