«Nei
casi più forti l’effetto è accompagnato da commozione vera,
intellettuale (Dante: quante volte nel Paradiso?), in altri casi
l’effetto consegue all’esasperazione di un principio tecnico
formale che si fonde con qualche cosa di fisico e di trascendente, e
la voce che parla parla a noi attraverso la sapienza dei secoli e dei
millenni: è il brivido estetico che ci dà Petrarca. Ciascuno dei
libri di Zanzotto ci elargisce almeno due o tre di questi momenti».
Apro con parole non mie, è Stefano Dal Bianco ne La religio
di Zanzotto tra scienza e poesia
a ricordarci che nonostante i secoli passino e l'approccio alla
poesia muti la vibrazione generata dalla sua lettura sa essere sempre
la stessa. E se tra Petrarca e Zanzotto corrono seicento anni,
poeticamente la distanza non vale. Vorrei avere avuto Zanzotto tra i
banchi del liceo, vorrei non aver dovuto aspettare l'università per
scoprirlo e immergermi nella sua lettura, ma l'anno scolastico è
tiranno: si sa. Tuttavia, basta una raccolta di poesie per recuperare
il tempo perduto.
Zanzotto
esordì nel 1950, quando una giuria d'eccezione – composta da
Montale, Ungaretti, Sereni, Sinisgalli e Quasimodo – gli conferiva
il premio San Babilia. Partecipava con la raccolta di poesie
Dietro il paesaggio,
pubblicata l'anno successivo. Tre anni dopo Ungaretti scrisse a
proposito di quel poeta di quarta generazione «il nostro
amico sa scegliersi i suoi maestri. [...] Penserei [...] al
Canzoniere di Petrarca dove da sonetto a sonetto appare sempre lo
stesso fantasma, ma l’animo da sonetto a sonetto si modula a un
grado diverso». Dietro il paesaggio esentava
dall'uso del sonetto, eppure qualcosa c'era. In un secolo in cui
tutti sembravano volgere le spalle a Petrarca per seguire le orme di
Dante, in cui la figura del poeta aretino era ormai avvolta da un
alone mellifluo, cortigiano, aristocratico e clericale, quando
Petrarca – per secoli emulato, imitato a limiti del plagio da
centinaia di poeti e aspiranti tali – diviene un padre scansato, in
quella congiura Zanzotto riesuma il suo cadavere.
Zanzotto
non è solo Petrarca, questo no.
In lui ci sono le influenze dei più grandi nomi della letteratura
italiana ed europea. Ci sono Quasimodo, De Libero, ma anche Lorca,
Eluard. Lo stesso Dante germina in quella lingua così frammentata,
così tesa, nei suoi mille strati e mille volti. Ma Petrarca fu forse
un grande amore, una dipendenza difficile da debellare. Sono mille
gli aspetti del poeta trecentesco che Zanzotto mette a fuoco,
rielabora, rende propri frantumandoli e ricostruendoli. Come i più
grandi petrarchisti del Cinquecento, come Della Casa, come GasparaStampa – citati nelle note della raccolta del 1978, Galateo
in Bosco –, Zanzotto entra
nella norma petrarchesca e la distrugge dall'interno, trova la sua
conferma anche in absentia.
«È Petrarca filtrato dai getti del Napalm» scrisse Michel David
quando Zanzotto pubblicò nel 1968 La Beltà.
Al
centro del Galateo in Bosco vi
è un gruppo di sedici sonetti che costituisce un'unità in sé ma da
esso è inseparabile: l'Ipersonetto.
Quattordici
sonetti come i quattordici versi che compongono la forma metrica
usata, con l'aggiunta di un prologo e un epilogo per ergere
un'architettura quadrilatera protetta, appunto, da quattro sonetti
moltiplicati per quattro. Il Galateo,
simbolo della normatività regolatrice, ideazione sociale, è la
creazione umana elaborata dall'uomo per rasserenare se stesso.
All'interno
del caos della foresta nera, della selva, in una radura salvifica, è
il tempio: un sonetto moltiplicato per se stesso. Ieri vi avevo
lasciati con un sonetto estratto dal Canzoniere
(interessante
è anche sapere che l'86,5% delle poesie raccolte nell'opera di
Petrarca sono sulla forma metrica del sonetto), oggi concludo con
sedici versi sviluppati a partire da quello stesso incipit,
ma nel Novecento. Perché quel commento zanzottiano ormai assume
tutta la forma di un autocommento.
Sonetto
del che fare e che pensare
Che
fai? Che pensi? Ed a chi mai chi parla?
Chi
e che cerececè d'augèl distinguo
con
che stillii di rivi il vacuo impinguo
del
paese che intorno a me s'intarla?
A
chi porgo, a quale ago per riattarla
quella
logica ai cui fili m'estinguo,
e
che e per chi di nota in nota illinguo
questo
che non fu canto, eloquio, ciarla?
Che
pensi tu, che mai non fosti, mai
né
pur in segno, in sogno di fantasma,
sogno
di segno, mah di mah, che fai?
Voci
d'augei, di rii, di selve intensi
moti
del niente che sé a niente plasma,
pensier
di non pensier, pensa: che pensi?
Serena Mauriello
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