Fare data-journalism significa ricostruire e raccontare storie assumendo i dati come punto di partenza: sono "lucidi e freddi", il loro contributo aiuta a restituire la verità sostanziale dei fatti basandosi sui numeri, piuttosto che su sensazioni, opinioni o emozioni; una volta che sono analizzati e interpretati, poi, i dati diventano la base per costruire vere e proprie storie che portano con sé tutta la potenza narrativa dei nuovi formati digitali. Questa inchiesta uscita su Al Jazeera ne è un esempio. Mi ha colpita per l'efficacia con cui combina design, mappe interattive, infografiche, video, fotografie e testimonianze.
La cosa interessante del data journalism è che ci fa leggere storie "all'ennesima potenza", supportate da vere e proprie infrastrutture di dati. Ma da dove parte il data-journalist? Quali sono le sue fonti e come lavora per costruire inchieste complete e strutturate? Ho deciso di fare una ricerca per mettere un po' di ordine tra questi miei interrogativi.
Ferrara- Alberto Nardelli e Jacopo Ottaviani raccontano questa infografica del The Guardian |
Tutto parte da quella sorta di caos di internet di cui parlavo prima: "Nel web c'è poco tempo a disposizione, ogni cosa si muove molto velocemente", mi spiega Jacopo Ottaviani, il giornalista free-lance che mi ha gentilmente concesso una chiacchierata su Skype per aiutarmi a capire, "i dati da cui attingiamo hanno dietro tutta una serie di 'fornitori' (come le fonti statistiche) che investono tempo e denaro per trarre conclusioni su determinati argomenti. Il data journalist ha il compito di prendere questi dati, leggerli, esaminarli e trarre delle proprie conclusioni per costruirci sopra una storia e il tutto, poi, viene associato ad un lavoro che è prettamente giornalistico".
Il punto di partenza, dunque, è rappresentato generalmente da fonti statistiche, amministrative o dataset appartenenti a organizzazioni di vario tipo: "Ad esempio Istat, che è una fonte statistica nazionale", mi dice Jacopo "oppure,se l'indagine è all'estero le fonti statistiche nazionali dei paesi che ci interessa conoscere. Oppure ancora Eurostat, Ocse, Banca Mondiale. Un altro tool interessante è Scholar. Ma il più grande aggregatore per reperirle", specifica, "resta sempre Google".
A questo punto, tra i "gomitoli di dati" e i fatti esiste un lungo e significativo processo di analisi e interpretazione: entrano in gioco fogli di calcolo, selezioni, deduplicazioni e metodologie che, passo dopo passo, porteranno a un pacchetto ben pulito: "Il lavoro di cernita", mi dice Jacopo, "si fa perché occorre trarre dal dataset tutti quegli elementi che risultano importanti dal punto di vista della storia o della notizia: si selezionano i fatti che quadrano bene tra loro e nelle conclusioni del giornalista, senza però andare ad omettere gli altri elementi, quelli che invece vanno contro la propria tesi"; questa cosa è molto avversa ai principi del data-journalism, ed è chiamata cherry picking: "Il cherry picking altera la realtà dei fatti a favore del giornalista", continua Jacopo, "mentre l'informazione deve essere il più esaustiva possibile".
Questa inchiesta sulla dispersione scolastica ad esempio, condotta da Jacopo su Internazionale, ha messo in luce una notizia che prima era "nascosta" tra le fonti: i dati sono stati analizzati, interpretati, messi in evidenza, e infine presentati al lettore con il supporto di una mappa interattiva: è l'elemento grafico che permette di interagire col dato, interrogarlo e selezionare le informazioni da chiedergli.
Ferrara - L'inchiesta di Jacopo Ottaviani sulla dispersione scolastica, Internazionale |
Ferrara - Jacopo Ottaviani e Alberto Nardelli spiegano una mappa interattiva accompagna un'inchiesta del The Guardian |
The Migrants Files , ad esempio, è un'inchiesta sviluppata da un team di giornalisti provenienti da oltre 15 paesi europei. Lanciata da DataNinja e Journalism++ e vincitrice dei data journalism awards 2014, ha preso le mosse da una domanda di partenza piuttosto difficile: quanti migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo dal 2000 al 2014?
La difficoltà nel fornire una risposta, ha spiegato durante un webinar Andrea Nelson Mauro, uno dei giornalisti fautori del progetto, stava nel fatto che "non esistevano monitoraggi ufficiali delle vittime né da parte dei singoli stati che da parte dell'Unione Europea". Si partiva da pochi data-set di base e molte informazioni disordinate in fogli, articoli e Pdf, e la strutturazione delle informazioni è stata un lungo lavoro di squadra per cercare, aggregare e pulire i dati. A collaborare sono stati giornalisti, coders, grafici, studenti, università e Ong, e la risposta finale, oltre a fornire una cifra importante rispetto alla domanda di partenza, ha messo a disposizione di chiunque volesse usufruirne una serie di dataset sul tema in continuo aggiornamento. Lo stesso ha fatto la datajournalism.it crew con l'inchiesta sulla Mafia in Africa, e così si fa la maggior parte delle volte: "Una parte importante del data-journalism sta proprio nella condivisione delle informazioni", mi ha detto Jacopo Ottaviani, "i dataset, una volta costruita la storia, possono essere poi strutturati e resi disponibili alla comunità su piattaforme open data".
Le nuove competenze che deve sviluppare il giornalista per poter aggiungere l'etichetta data-driven alla sua professione sono senza dubbio l'uso di numeri e fogli Excell, qualche nozione statistica e metodologica, ma soprattutto la voglia di sperimentare, se si lavora soli e non in team, tutti quei tool che permettono la realizzazione di interfacce grafiche.
Jacopo, comunque, ha precisato che il data-journalism investigativo è quasi sempre un lavoro di squadra: "Generalmente si parte da una persona che fa tutto, ma può essere limitante. I lavori fatti in team acquisiscono uno spessore tutto loro; designer che si occupano della data visualization; giornalisti che cercano, interpretano e infine raccontano i dati; programmatori, nel caso in cui gli strumenti che si usano sono più sofisticati, ma anche esperti di piattaforme open data come Foia Italy".
L'affascinante novità che emerge dal giornalismo che lavora con i dati sta, secondo me, nel suo essere una positiva fusione tra i principi classici - e spesso dimenticati - del giornalismo e la più nuova cultura di internet: storie, testimonianze, rigido controllo delle fonti e fact-checking si uniscono a etica della condivisione, lavoro di squadra e competenze differenti.
Una novità che è diversa dai molti dei nuovi modi di fare giornalismo emersi con la rete.
C'è una cosa da tenere a mente però, ha precisato Jacopo Ottaviani: "I dati faranno sempre più parte della professione giornalistica e l'etichetta data-driven è destinata ad assorbirsi nella concezione più generale di giornalismo. Essendo una novità gli hanno messo un'etichetta, ma questa etichetta prima o poi cadrà".
L'ottica data-driven, come dicevamo, è un grande valore aggiunto sia per chi costruisce la storia, sia per il lettore che ne viene a conoscenza: quanta realtà in più si può raccontare quando ad ogni singola informazione è attribuito un senso?
Sono molte le riviste o comunità di giornalisti e professionisti on-line che fanno informazione con i dati. Quelle che sto apprezzando maggiormente sono le storie di Dataninja e Datajournalism.it, ma anche quelle dell'Espresso, di Al Jazeera e di Internazionale.
La cosa che mi ha affascinata e spinta a capire meglio come funziona il giornalismo che usa i dati è il fatto che con un click, se ci si sa muovere attraverso il web, si può arrivare a storie e contenuti di alta qualità, che meritano veramente di essere affrontati.
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