Il concetto di prima
mattina è molto relativo. Mezzogiorno sa essere l'alba, se vuole.
Quando si soffre di
insonnia è sempre mattina presto, che ci si svegli alle sette come
alle undici. Così, di buonora a suo modo, Elena era alla stazione in attesa del treno. Il sonno
aveva bussato all'alba, dopo una
nottata passata fissando il soffitto e lo schermo del telefono a fasi
alterne, ora Elena era intenta a fissare i binari. La vita
l'osservava come proiettata su una tela bianca, con un leggero
fruscio di sottofondo, con la luce che avvolge solo le immagini in
movimento. Per coprire i danni della notte insonne, aveva imparato a
indossare occhiali sempre più grandi, le lenti sempre più scure.
L'inverno non era di certo suo amico, ma in fondo se la cavava
sempre. In un modo o nell'altro.
I treni della Roma-Lido
sono sempre gli stessi dal 1993. Da un anno dopo la nascita di Elena
quei treni non sono mai stati lavati. Da 22 anni lo sporco si è
accumulato riempiendo le venature del pavimento del treno, a ciò si
aggiunga anche la funzione di dormitorio per senza tetto che assumono
nelle ore notturne, la funzione carro merci nelle ore di punta, e
l'originale funzione tela da riempire per vandali. Un quadro
tetro e profumatissimo.
Pioveva, pioveva tanto,
pioveva più di quanto avesse voluto. Come stare in un tamburo di
metallo in cui ha orinato un cane. Non erano in molti nel vagone,
Elena sedeva vicino al finestrino intrecciandosi i capelli e
sciogliendoli, guardando la pioggia scivolare sul vetro. La parola
chiave era grigio, ogni cosa era grigia. Fuori forse più antracite,
dentro molto più fumoso. I capelli vaporosi di una signora sulla
sessantina cenerini mescolati al bianco; la maglia di una ragazza
asiatica con il volume delle cuffie così forte da offrire un
gratuito e gracchiante sottofondo musicale a tutti i passeggeri;
grigia di sporco la faccia di una bambina che chiede l'elemosina
spingendo in avanti un bicchiere di un fastfood ammaccato
dalla carità; grigia l'aura intorno a una coppia dal volto spento e
disinteressato. Estate anomala, quella.
Ostia Antica, Elena
doveva aspettare fino al capolinea. Ogni volta che i portelloni del
treno si aprivano e chiudevano sobbalzava, il mal di testa da poco
riposo le riempiva il cervello. Forse i colori sarebbero meno
grigi se togliessi gli occhiali, ma non lo so.
C'era una ragazza che rompeva l'equilibrio fuligginoso. Indossava una
di quelle magliette che si allacciano dietro la nuca, bianca con
disegnate delle fette di cocomero di un rosso acceso, lucido. Era poggiata al palo centrale. Almeno una decina di
posti a sedere era libera, eppure lei era lì, impunita, con quella
bocca socchiusa traditrice di un apparecchio grosso e poco
efficiente, con quella bocca da cavallo: la schiena nuda sul metallo
dalla vernice arancione, scorticata. Non era bella, no, troppo alta,
ossuta, il viso spigoloso, i capelli neri e crespi legati in una coda
scomposta. Eppure lei era lì, con quello sguardo finto distratto.
Vitinia.
Elena non riusciva a distogliere l'attenzione dalla ragazza. Da quel
rosso conturbante. Forse era solo la stanchezza, ma quel
rosso in quel grigiore
era troppo caldo, sanguinolento. Continuava a fissare la ragazza.
Entrare nel treno voleva dire passare sotto il suo sguardo, sempre
lì, in piedi, davanti le porte centrali. Un uomo sulla quarantina,
un fisico da palestra e ormoni, era salito sul vagone. Ecco, lui si
era fermato lì. Davanti a lei, non si muoveva da tre stazioni. La
guardava. Rosso Cocomero non abbassava gli occhi. Tor di Valle, Eur
Magliana. Ancora così, con lei che giocava con tre ciocche di
capelli e lui sempre più contratto, nervoso. Ora gli occhi di lui
erano in tinta con la maglietta di lei.
Sembrava
assurdo, ma Elena aveva ritrovato il suo equilibrio. Voglio dire, la
maglietta bianca e dai cocomeri rossi sposava perfettamente con
quegli occhi verdi venati di sangue. È per questo che finalmente
Elena si è addormentata, dopo quella notte insonne. Dopo tutte
quelle notti insonni.
L'asiatica improvvisamente si è
strappata dalle orecchie le cuffiette bianche, si è infilata le
unghie nelle gote, e presa dal panico, raggomitolata in posizione
fetale, ha urlato tutta l'anima che aveva in corpo. Elena ha riaperto
gli occhi. La donna con i capelli vaporosi ha tirato il freno
d'emergenza. Il treno si è fermato, e tutto è rimasto così:
immobile e grigio, ma correttamente chiazzato di rosso. Lui era lì,
piangeva con la pistola in mano. Continuava a dire scusa. Ripeteva
solo quello. Rosso Cocomero era per terra, con la testa fracassata.
Sembra curioso ma era esplosa proprio come un cocomero. Elena cercava
i semini neri, erano sparsi ovunque. Tutto è rimasto così:
l'asiatica urlante; la donna con la mano sul freno; quei curiosi
semini sparsi ovunque.
Poi lui, lei.
Poi di nuovo nulla
agente.
Elena si è risvegliata
all'ospedale, pensando di aver fatto un incubo. E invece aperti gli
occhi aveva trovato i carabinieri. Erano lì a chiederle di
raccontare quello che aveva visto. E Elena non ne capiva il motivo,
era solo un sogno senza logicità.
Il giorno dopo al telegiornale stavano passando un servizio
sull'accaduto. Una tizia parlava, e sullo schermo scorrevano le foto
della ragazza con i cocomeri.
S.
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