venerdì 21 novembre 2014

Chikù: il ristorante italo-rom e l'integrazione che a Scampia si può. Intervista a Emma Ferulano

Io credo – e i fatti confermano – che non ci sia miglior modo per far felice una persona di prenderla “per la gola”. E far felici le persone, soprattutto in una situazione di degrado, può significare molto per la qualità della vita di un territorio. Questo, Emma Ferulano dell’associazione di Scampia “Chi Rom e Chi no” lo sa bene.
Giorni fa, da qualche parte sul web, avevo letto che nella periferia napoletana, nei pressi del quartiere di Scampia, è da poco nato un ristorante di cucina italo-rom. Incuriosita e gradevolmente stupita, soprattutto visti gli ultimi eventi verificatisi tra nord e centro Italia, mi sono chiesta in che modo, in un contesto come quello di Scampia, possa “sopravvivere” un ristorante in cui protagonista sia la tanto discussa minoranza rom.
Così ho chiamato Elena, una delle fautrici dell’attività, e ho scoperto che dietro a quella che può apparire come un’originale startup, si nasconde un’opera di riappropriazione degli spazi che ha svolto un lavoro enorme. Da molti tutt’ora considerato utopia.

“Noi proponiamo un modello in controtendenza che, al contrario di quanto possa apparire, è estremamente semplice – mi spiega – non abbiamo fatto nulla di che, ma solo lavorato per l’integrazione. Mentre l’astio e gli scontri nascono dalle strumentalizzazioni , noi ci siamo adattati alle necessità, e ci siamo uniti”.
Chikù non è solo un ristorante, ma il prodotto – tutt’ora in evoluzione -  di un decennio di militanza, cultura, narrazione e riscoperta di un territorio. Di un’azione caparbia e determinata di pedagogia continua sui cittadini, volta a generare consapevolezza e introdurre alla multiculturalità.

Ma allora, qual è l’origine reale di questa idea?
La vera culla di Chikù è l’associazione “Chi Rom e Chi no”. Il nostro lavoro, da sempre, è quello di svolgere un’azione culturale tesa a difendere i diritti di rom e non rom e diffondere il concetto di interculturalità. Scampia dieci anni fa non era com’è ora: le discriminazioni nei confronti dell’etnia Rom rappresentavano, forse, un problema. Noi, attraverso un lavoro d’inchiesta sulle bellezze del quartiere e la creazione di una sua narrazione in cui si si creasse un collegamento tra differenti culture,  abbiamo rivoluzionato un territorio partendo completamente dal basso. Siamo sempre riusciti a lavorare con tutti indiscriminatamente verso una vera e propria politica di partecipazione.

Quando si parla di riappropriazione di un territorio, inevitabilmente, si parla di spazi. Quali sono i vostri?
Abbiamo una visione radicale della trasformazione degli
spazi dal basso. Il nostro primo, importante “approdo” è stata la costruzione di una baracca all’interno del campo rom del quartiere. Sempre in collaborazione con la comunità, ovvio. E in maniera pressoché inaspettata, quella piccola costruzione è diventato un luogo fortemente simbolico per tutto il territorio: ha ospitato doposcuola, convegni, seminari, carnevali di quartiere, spettacoli teatrali di alto livello e addirittura, una volta, la visita della prefettura.
In un contesto abusivo!

Spettacoli teatrali?
Si, sono circa dieci anni che mandiamo avanti un progetto teatrale con attori rom e non rom; e la compagnia è un calderone culturale: composta da ragazzi di Napoli centro, del periurbano e delle comunità nomadi, è arrivata a contare 100 persone che, tutte insieme, hanno creato un contesto di coesione sociale che ruota attorno ad una produzione artistica di qualità. Possiamo vantare le sceneggiature di Maurizio Braucci e siamo riusciti a mettere insieme intellighenzia e pedagogia.
Da qui, poi, la seconda tappa spaziale del nostro viaggio: l’auditorium di Scampia. La struttura, mai veramente compiuta né resa fruibile, è stata occupata dieci anni fa, diventando da quel momento un altro punto di ritrovo per la cittadinanza e la società civile.

E poi l’idea di Chikù…
All’interno di tutto questo grande melting pot, ogni tanto si finiva per ritrovarsi a cucinare nel campo dopo gli spettacoli teatrali. La gente era contentissima dei grandi buffet di cucina rom che organizzavamo. Quando venivano a farci visita scuole e licei e offrivamo dolci tipici, anche le maestre con la puzza sotto il naso cambiavano espressione. Quello del prendere le persone per la gola non è un luogo comune.
Così, spronati da varie opportunità, abbiamo riunito un gruppo di donne rom e non rom del quartiere e scritto un progetto, che ha finito per vincere il bando pubblico finanziato da Unar e Presidenza dei ministri per la formazione professionale e la vendita di prodotti.
Da qui il servizio di catering: cucina rom e italiana insieme. Dalle polpette al sugo all’insalata di verza e dalle polpettine alle melanzane alle sarme (involtini di verza ripieni di riso).
E da qui altri bandi, altri premi: uno internazionale per l’innovazione sociale e poi un altro, che ha portato UniCredit a chiederci un business plan per la creazione del ristorante vero e proprio.

Un lavorone!
Due anni solo per il piano economico, lavori burocratici e di militanza per l’acquisizione in comodato d’uso gratuito lo spazio sopra all’auditorium di Scampia e la lotta che, non dimentichiamo, continua a rivendicare il mantenimento stesso dello spazio. Abbiamo messo a disposizione l’area sia come punto ristoro che come zona ricreativa.

Con quanti soldi avete realizzato tutto ciò?
Quelli erogati dai bandi sono sempre stati piccoli fondi e la maggior parte delle nostre attività è autofinanziata. Chikù, poi, sarà anche finalizzato a fare fondo cassa, oltre che a dar lavoro ai collaboratori, che sono 9 persone. E’ uno spazio in continuo fermento, facciamo workshop con università e altre realtà, siamo in tanti, ora ci sta aiutando anche un amico chef.

E l’esito sociale?
Beh, intanto si è superata l’idea stereotipata di rom e zingari. Poi, considerando che spesso ci siamo presi a carico nella compagnia ragazzi “borderline” che neanche andavano a scuola, si è dato vita ad un lavoro di arricchimento artistico.  I rapporti tra i cittadini sono cambiati: il concetto di integrazione, da noi, è diventato implicito.

È una situazione in netta controtendenza rispetto a quelle che si vedono nel resto del Paese. Ma siamo sicuri che questo progetto piaccia proprio a tutti?
No, stiamo subendo piccoli attacchi, anche sui social network, sia collettivi che singoli. E poi, ieri, il presidente della municipalità di Scampia ha affermato di voler fare una “marcia” sul campo. Forse in vista delle elezioni, chi lo sa. Ma secondo me lo fa solo per raccogliere un po’ di consenso, e intanto noi – che ti assicuro, siamo molti – tenteremo di bloccare questa cosa pacificamente, testimoniando che queste persone non sono “invasori”. Ci siamo mobilitati tutti in maniera estremamente pacifica: non succederà nulla.

Una considerazione sulle ultime vicende messe in luce dalla cronaca?
Quando il tessuto sociale è debole e dietro di lui regna il vuoto, la gente può finire per dilagare nei peggiori istinti. È necessario partire dal basso, e per dare ordine a questi spazi così complessi ci vuole una cosa, che è fondamentale: la spinta culturale, la volontà pratica - e non retorica - di fare consapevolezza e cultura tra la gente. 

Intervista di Giulia Capozzi
(@giulscapozzi)














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