Poetessa Saffo, I secolo a.C.
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Gaspara Stampa è un nome poco udito
eppure tanto elogiato, il che di per sé è un ossimoro; se si parla di poesia, nulla di retorico può sconvolgerci.
Donna, amante, poetessa, ma anche
qualcosa in più. Rivoluzionaria, forse.
Veneta d'adozione, nacque attorno al
1523 a Padova da una nobile famiglia milanese. Trascorse gli anni più
belli e tormentati della sua vita nella città lagunare dove fu
cantatrice prima, cortigiana di lusso poi. Era la donna per
eccellenza, io la immagino così: bella e seducente. Di poesia se ne
intendeva anche meglio degli uomini che godevano della sua gentil
compagnia. Ebbe modo di frequentare il circolo di Domenico Venier, di
Trifon Gabriele, dei più illustri letterati cinquecenteschi.
Gaspara Stampa era una petrarchista
come il suo secolo, ma soprattutto era una petrarchista donna.
Si dice che il cinquanta per cento
degli italiani oggi possieda un romanza nel cassetto – spesso lo si
ripete chiacchierando –, cifra esagerata senza dubbio, ma non del
tutto infondata nell'era dell'editoria a pagamento. Se ora il
desiderio dell'italiano medio è vedersi romanziere, nel Cinquecento
ci si dilettava in versi. Il numero dei poeti dopo la pubblicazione
delle Prose bembiane crebbe
in maniera esponenziale e a moltiplicarsi furono i canzonieri
d'amore. Bembo forniva delle regole o norme da seguire diligentemente
per partorire il sonetto perfettamente strutturato e di sola
ispirazione petrarchesca. Il Cinquecento è il secolo della rima
facile, e tanti si scagliarono contro una poesia di maniera sempre
più vicina al plagio (la produzione dei centoni – assemblaggi di
versi altrui in un unico componimento – ne è la più grande
dimostrazione).
In
questo mondo affastellato di poeti e poetucoli, elogi e plagi,
cominciano a farsi spazio voci femminili. E che voci.
Gaspara Stampa non è sola, questo no. Insieme a lei c'è Vittoria
Colonna, illustre amica di Michelangelo Buonarroti e temuta
dall'ambiente cattolico per la vicinanza a Juan de Valdés, ma anche
Veronica Gambara, Chiara Matraini, Isabella di Morra e tante altre.
Il petrarchismo declinato al femminile ha qualcosa di particolarmente
intrigante. I ruoli si ribaltano: Laura non è più musa, ma attrice.
Non trattiamo più di poesie di un uomo per una donna, ma di una
donna per un uomo. Eppure gli stilemi sono gli stessi, le forme sono
sempre quelle. All'occhio del lettore del duemila questo potrà
sembrare un semplice dettaglio, insomma è sempre poesia d'amore, ma
c'è un che di tremendamente rivoluzionario in tutto questo: il mondo
si capovolge.
Il più
influente poeta del Cinquecento fu senza alcun dubbio Giovanni Della
Casa – insieme alla nostra Gaspara è citato all'interno del
Galateo in Bosco di
Andrea Zanzotto – e non scrisse poesie d'amore. Quando Gualteruzzi
ipotizzò di pubblicare le lettere d'amore di Bembo, Della Casa
espresse un certo imbarazzo. La lirica d'amore, come ha affermato
Andrea Afribo, era passata inevitabilmente nelle mani di una donna. E
quella donna era Gaspara Stampa. Il grande amore per il conte
Collatino di Collalto, tra il 1548 e il '51, segnò la sua produzione
poetica con una tormentata vicenda di vicinanze e abbandoni. Una
cortigiana – termine gentilissimo per indicare qualcosa che di
gentile ha ben poco – innamorata di un nobile. Ser
Collatino non sapeva di certo
resistere al suo fascino, ma in un modo o nell'altro era comunque
costretto a scaricarla pur di non perdere l'onore aristocratico. Ecco
dove nasce quella poesia così concitata, ossimorica come la sua
fama, ricca di anafore, ripetizioni, specchio di una psiche
distrutta, di turbamenti interiori messi in mostra per poter gridare
al mondo il proprio amore. Gaspara Stampa era arrabbiata, e aveva
tutte le ragioni per esserlo.
E
forse questa poesia riversa l'isteria ossessiva di un amore
femminile, almeno il mio.
Gaspara Stampa, Una inaudita e nuova crudeltate
Una inaudita e nuova crudeltate,
un esser al fuggir pronto e leggiero,
un andar troppo di sue lodi altero,
un tôrre
ad altri la sua libertate,
un
vedermi penar senza pietate,
un
aver sempre a' miei danni il pensiero,
un
rider di mia morte quando pèro,
un
aver voglie ognor fredde e gelate,
un
eterno timor di lontananza,
un
verno eterno senza primavera,
un
non dar giamai cibo a la speranza,
m'han
fatto divenir una Chimera,
uno
abisso confuso, un mar ch'avanza
d'onde
e tempeste una marina vera.
Serena Mauriello
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