mercoledì 5 novembre 2014

AsSaggi di Letteratura di S. Mauriello: Gaspara Stampa, e la donna non è più Musa


Poetessa Saffo, I secolo a.C.

Gaspara Stampa è un nome poco udito eppure tanto elogiato, il che di per sé è un ossimoro; se si parla di poesia, nulla di  retorico può sconvolgerci.
Donna, amante, poetessa, ma anche qualcosa in più. Rivoluzionaria, forse.
Veneta d'adozione, nacque attorno al 1523 a Padova da una nobile famiglia milanese. Trascorse gli anni più belli e tormentati della sua vita nella città lagunare dove fu cantatrice prima, cortigiana di lusso poi. Era la donna per eccellenza, io la immagino così: bella e seducente. Di poesia se ne intendeva anche meglio degli uomini che godevano della sua gentil compagnia. Ebbe modo di frequentare il circolo di Domenico Venier, di Trifon Gabriele, dei più illustri letterati cinquecenteschi.
Gaspara Stampa era una petrarchista come il suo secolo, ma soprattutto era una petrarchista donna.
Si dice che il cinquanta per cento degli italiani oggi possieda un romanza nel cassetto – spesso lo si ripete chiacchierando –, cifra esagerata senza dubbio, ma non del tutto infondata nell'era dell'editoria a pagamento. Se ora il desiderio dell'italiano medio è vedersi romanziere, nel Cinquecento ci si dilettava in versi. Il numero dei poeti dopo la pubblicazione delle Prose bembiane crebbe in maniera esponenziale e a moltiplicarsi furono i canzonieri d'amore. Bembo forniva delle regole o norme da seguire diligentemente per partorire il sonetto perfettamente strutturato e di sola ispirazione petrarchesca. Il Cinquecento è il secolo della rima facile, e tanti si scagliarono contro una poesia di maniera sempre più vicina al plagio (la produzione dei centoni – assemblaggi di versi altrui in un unico componimento – ne è la più grande dimostrazione).
In questo mondo affastellato di poeti e poetucoli, elogi e plagi, cominciano a farsi spazio voci femminili. E che voci. Gaspara Stampa non è sola, questo no. Insieme a lei c'è Vittoria Colonna, illustre amica di Michelangelo Buonarroti e temuta dall'ambiente cattolico per la vicinanza a Juan de Valdés, ma anche Veronica Gambara, Chiara Matraini, Isabella di Morra e tante altre. Il petrarchismo declinato al femminile ha qualcosa di particolarmente intrigante. I ruoli si ribaltano: Laura non è più musa, ma attrice. Non trattiamo più di poesie di un uomo per una donna, ma di una donna per un uomo. Eppure gli stilemi sono gli stessi, le forme sono sempre quelle. All'occhio del lettore del duemila questo potrà sembrare un semplice dettaglio, insomma è sempre poesia d'amore, ma c'è un che di tremendamente rivoluzionario in tutto questo: il mondo si capovolge.
Il più influente poeta del Cinquecento fu senza alcun dubbio Giovanni Della Casa – insieme alla nostra Gaspara è citato all'interno del Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto – e non scrisse poesie d'amore. Quando Gualteruzzi ipotizzò di pubblicare le lettere d'amore di Bembo, Della Casa espresse un certo imbarazzo. La lirica d'amore, come ha affermato Andrea Afribo, era passata inevitabilmente nelle mani di una donna. E quella donna era Gaspara Stampa. Il grande amore per il conte Collatino di Collalto, tra il 1548 e il '51, segnò la sua produzione poetica con una tormentata vicenda di vicinanze e abbandoni. Una cortigiana – termine gentilissimo per indicare qualcosa che di gentile ha ben poco – innamorata di un nobile. Ser Collatino non sapeva di certo resistere al suo fascino, ma in un modo o nell'altro era comunque costretto a scaricarla pur di non perdere l'onore aristocratico. Ecco dove nasce quella poesia così concitata, ossimorica come la sua fama, ricca di anafore, ripetizioni, specchio di una psiche distrutta, di turbamenti interiori messi in mostra per poter gridare al mondo il proprio amore. Gaspara Stampa era arrabbiata, e aveva tutte le ragioni per esserlo.
E forse questa poesia riversa l'isteria ossessiva di un amore femminile, almeno il mio.

Gaspara Stampa, Una inaudita e nuova crudeltate

Una inaudita e nuova crudeltate,
un esser al fuggir pronto e leggiero,
un andar troppo di sue lodi altero,
un tôrre ad altri la sua libertate,

un vedermi penar senza pietate,
un aver sempre a' miei danni il pensiero,
un rider di mia morte quando pèro,
un aver voglie ognor fredde e gelate,

un eterno timor di lontananza,
un verno eterno senza primavera,
un non dar giamai cibo a la speranza,

m'han fatto divenir una Chimera,
uno abisso confuso, un mar ch'avanza
d'onde e tempeste una marina vera.



Serena Mauriello

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