Nel 1948 in una lettera Saba scrisse
«era matto e solo matto, è stato scambiato da molti per un vero poeta». Quel matto
era Dino Campana.
Jackson Pollock |
Non
che Saba dicesse il falso, almeno parzialmente. Campana era senza
dubbio matto, ma non
solo. La sua vita fu un susseguirsi di ricoveri coatti e fughe,
manicomi e carceri, amore tempestoso quanto la profondità della sua
ira. Matti si nasce o si diventa? Forse entrambe le cose, non sono io
a poter rispondere, ma Campana nacque nel 1885 e il padre testimoniò
che già nel 1900 aveva manifestato in famiglia «un'impulsività
brutale, morbosa... specialmente con la mamma». La madre – altro
grande cruccio di papà Giovanni Campana –, anch'essa affetta da
una forma di follia, era un'accesa credente cattolica con mania
deambulatoria.
Era
il 5 settembre 1906 quando Dino Campana venne internato per la prima
volta al manicomio di Imola.
La diagnosi conservataci dalla cartella medica è agghiacciante: il
poeta è affetto da dementia proecox,
o più semplicemente per i medici è schizofrenico e si prevede un
rapido peggioramento della sua condizione che lo porterà a un
degrado delle facoltà psichiche, a una totale chiusura dal mondo,
introspezione, a delle «temporanee assenze dalla realtà verso un
autismo completo e la demenza». Cito Gianni Turchetta in questa
diagnosi, nel suo Dino Campana: biografia di un poeta
ci offre una sensibilissima analisi dello sviluppo della follia
campaniana. A pochi giorni da quel primo ricovero coatto, il padre
scrisse ad Angelo Brugia, direttore del manicomio, una lettera
permeata di angoscia e affetto non esente dai sensi di colpa: «Guardi
di guarire mio figlio com'Ella guarì me, ricorrendo magari alla
suggestione, se non gioverà la scienza». Anche lui con i disturbi
nevrastenici, e uno zio pazzo va aggiunto alla serie. Insomma, il
quadro clinico della famiglia Campana si chiude in bellezza nella
conferma di un totale squilibrio. Cosa ci si poteva aspettare dal
giovani Dino se non il peggio?
Da
quell'internamento Campana eredita solo un rapporto con il mondo
ulteriormente complicato, oltre che le sue manie di persecuzione.
Sostanzialmente la valutazione di Campana-poeta e rimarrà per sempre segnata dalla fama del Campana-paziente. Nella sua scrittura fondata sul principio della
ripetizione e della circolarità, che avvolge il lettore in una
spirale continua di ritorni parallelistici, con quegli effetti di natura
puramente suggestiva, è stato visto solo il riflesso di una mente
bruciata dal germe della follia. Come ha affermato Vincenzo Mengaldo
nell'introduzione al corpus di opere selezionate per la raccolta
Poeti italiani del Novecento,
«occorre intanto evitare
qualsasi estrapolazione del dérèglement
psicologico ed esistenziale del poeta» dalla sua scrittura. Leggendo
Campana il lettore deve solo lasciarsi trascinare dagli spettacoli
emblematici del mondo rappresentato, e lo deve fare senza timori né
inquietudini. Non c'è nulla di nuovo in Campana, come tutto è
innovativo. Profondamente novecentesco è d'altro canto l'estensione
assoluta dell'idea del poète maudit ottocentesco
privo, però, di quella consapevolezza distruttiva necessaria per
mutare il disagio in contestazione.
E se
proprio si vuole leggere nei suoi versi la pazzia del «poeta
visionario», forse è meglio ridimensionarlo nel «poeta visivo»
come fece Contini. O forse, meglio ancora è ammettere che se essere
folli vuol dire scrivere come Campana, io sono la prima a richiedere
di essere internata. Subito.
L'invetriata,
da Canti
Orfici (1912)
La
sera fumosa d'estate
Dall'alta
invetriata mesce chiarori nell'ombra
E
mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma
chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A
la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? C'è
Nella
stanza un odor di putredine: c'è
Nella
stanza una piaga rossa languente.
Le
stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E
tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c'è,
Nel
cuore della sera c'è,
Sempre
una piaga rossa languente.
Serena Mauriello
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