mercoledì 12 novembre 2014

AsSaggi di Letteratura di S. Mauriello: Sulla follia di Dino Campana



Nel 1948 in una lettera Saba scrisse «era matto e solo matto, è stato scambiato da molti per un vero poeta». Quel matto era Dino Campana.
Jackson Pollock
Non che Saba dicesse il falso, almeno parzialmente. Campana era senza dubbio matto, ma non solo. La sua vita fu un susseguirsi di ricoveri coatti e fughe, manicomi e carceri, amore tempestoso quanto la profondità della sua ira. Matti si nasce o si diventa? Forse entrambe le cose, non sono io a poter rispondere, ma Campana nacque nel 1885 e il padre testimoniò che già nel 1900 aveva manifestato in famiglia «un'impulsività brutale, morbosa... specialmente con la mamma». La madre – altro grande cruccio di papà Giovanni Campana –, anch'essa affetta da una forma di follia, era un'accesa credente cattolica con mania deambulatoria.
Era il 5 settembre 1906 quando Dino Campana venne internato per la prima volta al manicomio di Imola. La diagnosi conservataci dalla cartella medica è agghiacciante: il poeta è affetto da dementia proecox, o più semplicemente per i medici è schizofrenico e si prevede un rapido peggioramento della sua condizione che lo porterà a un degrado delle facoltà psichiche, a una totale chiusura dal mondo, introspezione, a delle «temporanee assenze dalla realtà verso un autismo completo e la demenza». Cito Gianni Turchetta in questa diagnosi, nel suo Dino Campana: biografia di un poeta ci offre una sensibilissima analisi dello sviluppo della follia campaniana. A pochi giorni da quel primo ricovero coatto, il padre scrisse ad Angelo Brugia, direttore del manicomio, una lettera permeata di angoscia e affetto non esente dai sensi di colpa: «Guardi di guarire mio figlio com'Ella guarì me, ricorrendo magari alla suggestione, se non gioverà la scienza». Anche lui con i disturbi nevrastenici, e uno zio pazzo va aggiunto alla serie. Insomma, il quadro clinico della famiglia Campana si chiude in bellezza nella conferma di un totale squilibrio. Cosa ci si poteva aspettare dal giovani Dino se non il peggio?
Da quell'internamento Campana eredita solo un rapporto con il mondo ulteriormente complicato, oltre che le sue manie di persecuzione. Sostanzialmente la valutazione di Campana-poeta e rimarrà per sempre segnata dalla fama del Campana-paziente. Nella sua scrittura fondata sul principio della ripetizione e della circolarità, che avvolge il lettore in una spirale continua di ritorni parallelistici, con quegli effetti di natura puramente suggestiva, è stato visto solo il riflesso di una mente bruciata dal germe della follia. Come ha affermato Vincenzo Mengaldo nell'introduzione al corpus di opere selezionate per la raccolta Poeti italiani del Novecento, «occorre intanto evitare qualsasi estrapolazione del dérèglement psicologico ed esistenziale del poeta» dalla sua scrittura. Leggendo Campana il lettore deve solo lasciarsi trascinare dagli spettacoli emblematici del mondo rappresentato, e lo deve fare senza timori né inquietudini. Non c'è nulla di nuovo in Campana, come tutto è innovativo. Profondamente novecentesco è d'altro canto l'estensione assoluta dell'idea del poète maudit ottocentesco privo, però, di quella consapevolezza distruttiva necessaria per mutare il disagio in contestazione.
E se proprio si vuole leggere nei suoi versi la pazzia del «poeta visionario», forse è meglio ridimensionarlo nel «poeta visivo» come fece Contini. O forse, meglio ancora è ammettere che se essere folli vuol dire scrivere come Campana, io sono la prima a richiedere di essere internata. Subito.



L'invetriata, da Canti Orfici (1912)

La sera fumosa d'estate
Dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? C'è
Nella stanza un odor di putredine: c'è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c'è,
Nel cuore della sera c'è,
Sempre una piaga rossa languente.



Serena Mauriello

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