Illustrazione di Chiara Virgili |
Il mio corpo aveva sempre assecondato gli ordini del mio umore. Anche quel giorno, a tavola, non avevo mangiato nulla. Mi ero inventato di avere mal di pancia già dalla mattina e di non avere appetito. Aggiunsi di essere disgustato, un dettaglio apparentemente da poco che però per me costituiva quantomeno una mezza verità.
Mia madre mi tolse la carne da davanti, solo l’odore mi nauseava. Mangiati un po’ di mozzarella, se ti va, mi disse. Masticarne un unico morso mi sembrò un’impresa. Alzami quella mattina era stata un’impresa.
Vestirmi, lavarmi i denti, andare a scuola. Avevo solo tredici anni e la mia vita era un’impresa. A scuola brillavo, non c’era nessuno che potesse competere con la mia bravura e al massimo potevo ambire a battere me stesso, compito dopo compito, per ottenere ogni volta un voto che sfiorasse il massimo. Al dieci non ci arrivavo mai. C’era qualcosa nell’aria, un’opinione diffusa e condivisa persino dagli insegnanti, che mi vedeva sgomitare ed affannarmi per ottenere una stima che non mi avvolgeva mai del tutto e che mi obbligava a soccombere ad un’infinita sfilza di nove. E non era tutto. Il rancore, l’odio che mi era riservato da parte dei miei compagni mi avviliva più di ogni altra cosa. Mi invidiavano e non lo capivo. Era un sentimento così estraneo, per me, che non lo sapevo codificare e anzi lo confondevo con una sacrosanta constatazione di massa: ero merda, merda brava a scuola.
Vestirmi, lavarmi i denti, andare a scuola. Avevo solo tredici anni e la mia vita era un’impresa. A scuola brillavo, non c’era nessuno che potesse competere con la mia bravura e al massimo potevo ambire a battere me stesso, compito dopo compito, per ottenere ogni volta un voto che sfiorasse il massimo. Al dieci non ci arrivavo mai. C’era qualcosa nell’aria, un’opinione diffusa e condivisa persino dagli insegnanti, che mi vedeva sgomitare ed affannarmi per ottenere una stima che non mi avvolgeva mai del tutto e che mi obbligava a soccombere ad un’infinita sfilza di nove. E non era tutto. Il rancore, l’odio che mi era riservato da parte dei miei compagni mi avviliva più di ogni altra cosa. Mi invidiavano e non lo capivo. Era un sentimento così estraneo, per me, che non lo sapevo codificare e anzi lo confondevo con una sacrosanta constatazione di massa: ero merda, merda brava a scuola.
Per il resto, il mio viso pullulava di punti neri ripugnanti, la mia fronte era una carneficina di brufoli smembrati con cura dalle mie stesse dita tozze; vestivo male, e non perché fossi povero ma perché persino in casa mia si era deciso latentemente che il mio corpo non meritava di essere coperto con qualcosa di valore. Avevo un ventre floscio, fianchi larghi e gambe corte. Mi si faceva notare di continuo il pallore del mio viso, la mia espressione assente. Ne ero cosciente. Io per primo mi vedevo così, mi guardavo da fuori e chiedevo di continuo a me stesso di scuotersi.
Quella sera a cena, dopo aver inghiottito a fatica il boccone di mozzarella, mio padre mi chiese se assieme al mal di pancia sentissi anche il bisogno di andare al bagno. Mi diagnosticò un’influenza intestinale senza neppure lasciarmi il tempo di rispondere. Non so perché ma mi imbarazzai e dunque mi imposi: dissi no, non ci sono andata al bagno. Mi sentii invaso da un calore improvviso che mi arrossò la faccia così rapidamente da soffocarmi. Mi corressi, dissi ho sbagliato: non ci sono andato, non andata. Accennai un sorriso timido ma sdrammatizzante. Mi parve opportuno. Mio padre si accodò, superficiale com’era, e disse che a forza di stare con Selene, la mia unica amica, stavo diventando femmina. Anzi, si corresse: stavo diventando frocio.
Percepii chiaramente una scossa elettrica dividermi il cuore in due. Non feci in tempo a ragionarci su, ricordo solo una rapidissima e microscopica connessione tra quella sensazione e il cuore frantumato di cui parlavano gli innamorati. Riacquistai lucidità per un attimo, capii che non serviva essere innamorati per avere il cuore infranto; è sufficiente desiderare di amare senza poterlo fare.
Diventai ancora più pallido del solito. Mi alzai velocemente dal tavolo e persi il controllo: vomitai a terra. Mi misi a frignare, non riuscivo a smettere.
Mia madre mi aiutò ad alzarmi, poi corse a prendere un panno per pulire.
Mio padre mi disse sta’ tranquillo, mo’ ti passa. Te l’avevo detto che era influenza intestinale.
Giovanni Mau
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