«Non
è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace» dice un
detto popolare, e mai fu più vero come nel '600.
Facendo
una cernita letteraria delle donne che per secoli hanno affollato i
versi dei poeti italiani fino alla fine del Cinquecento, il panorama
estetico si può definire piuttosto monotonale, oltre che
monocromatico. I capelli della dolce Laura erano d'oro scompigliati
dal vento, e che ritratto aveva creato Dante per la sua Beatrice? «Le
sue chiome erano crespe e bionde, con un adornamento di perle […]
spaziosa avea la fronte; amorosa la bocca; diritto il naso; il labbro
sottile; il mento breve, fesso; tondeggiante, svelta e bianca la
gola; l'impostatura sul collo perfetta e il portamento sul tronco
accompagnato da alcuna alterezza», ha risposto per noi nel 1832
Melchior Missirini nel suo Dell'Amor di Dante Alighieri e
del ritratto di Beatrice Portinari. A
vincere il premio del più imitato del Cinquecento è tuttavia
Petrarca grazie al successo inaudito delle Prose della
volgar lingua bembiane che lo
sancirono come canone, tuttavia il panorama della bellezza muliebre
non sarebbe mutato di molto se il grammatico veneto avesse scelto
l'Alighieri come prediletto. Sembra quasi che le donne del passato
fossero tutte uguali, anche senza l'uso della chirurgia estetica.
Poi
arriva Marino e succede qualcosa. La
poesia cambia, la retorica muta, le immagini si fanno ardite. Il
Seicento è il barocco, è artificio retorico, è il molteplice. È
l'amore per la metafora, il gusto per il saper concludere un sonetto
con una tensione sensibile che sappia esplodere sul finale. Uno
schiaffo al passato per rivolgersi a tutto ciò che non è mai stato.
Marino dal petrarchismo è lontano anni luce e lo afferma
esplicitamente presentandosi come padre della nuova poesia. Come
ricordano Cudini e Conrieri nel loro Manuale non scolastico di
letteratura italiana il processo moltiplicativo investe anche
l'aerea erotica: l'immagine di una giovane dalle fattezze
perfettamente equilibrate, dal volto divinamente simmetrico
incorniciato con in una chioma aurea, si diffrange in una serie di
belle dalla differente figura.
Differente,
tuttavia, è dir poco.
Il
campionario della bellezza marinista accoglie ogni tipo di donna,
senza indiscrezioni.
E
finalmente le donne non sono più bionde.
Eccole,
una dopo l'altra, la bella pidocchiosa, la bella zoppa, la bella con
gli occhiali (sarà nato proprio nel Seicento il fascino della
segretaria?), la bella nana, la bella gobba, la bella mendica, la
bella spiritata, la bella a cui manca un dente, e la più sensuale di
tutte: la bella con la pulce sulle poppe. L'elenco potrebbe
continuare ancora, ma fermiamoci qui per il momento. I marinisti le
amano tutte, e senza farsi troppi problemi godono di ogni loro
difetto perché è proprio esso a rendere la loro bellezza unica e
diversa dalle altre.
Io
ora vi lascio in compagnia di due bellezze seicentesche, e già che
ci sono posso posticipare l'appuntamento dal parrucchiere di una
settimana.
Giuseppe Artale, Pulce sulle poppe di bella donna
Picciola instabil macchia, ecco, vivente
in sen d'argento alimentare e grato;
e posa ove il sol fisso è geminato
brieve un'ombra palpabile' e pungente.
Lieve d'ebeno star fera mordente
fra nevosi sentier veggio in aguato,
e un antipodo nero abbreviato
d'un picciol mondo, e quasi niente un ente.
Pulce, volatil neo d'almo candore,
che indivisibil corpo hai per ischermo,
fatto etïopo un atomo d'amore;
tu sei, di questo cor basso ed infermo
per far prolisso il duol, lungo il languore,
de' periodi miei punto non fermo.
in sen d'argento alimentare e grato;
e posa ove il sol fisso è geminato
brieve un'ombra palpabile' e pungente.
Lieve d'ebeno star fera mordente
fra nevosi sentier veggio in aguato,
e un antipodo nero abbreviato
d'un picciol mondo, e quasi niente un ente.
Pulce, volatil neo d'almo candore,
che indivisibil corpo hai per ischermo,
fatto etïopo un atomo d'amore;
tu sei, di questo cor basso ed infermo
per far prolisso il duol, lungo il languore,
de' periodi miei punto non fermo.
Giovan Leone Sempronio, La bella zoppa
Move
zoppa gentil piede ineguale,
cui
ogn’altra è ineguale in esser bella;
e
così zoppa ancor del dio che ha l’ale
sa
le alate fuggir auree quadrella.
Tal
forse era Euridice, e forse tale
era
Venere a l’hor che a questa e a quella
morse
il candido pie’ serpe mortale,
punse
il candido pie’ spina ribella.
Consolisi
Vulcan; ché se talora
mosse
il suo zoppicar Venere a riso,
oggi
sa zoppicar Venere ancora.
E
certo questa dea, se il ver m’avviso,
solo
il tenero pie’
si torse a l’ora
ch’ella
precipitò dal paradiso.
Serena Mauriello
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