Sono passati tre anni dalla mia prima lezione universitaria, ma continuo a ricordarla come se fosse ieri. Prima lezione di letteratura, si intende. Rigorosamente in ultima fila, ascoltavo estasiata le parole del professore, un uomo sulla sessantina trasudante fascino intellettuale da tutti i pori. Con arditi voli pindarici, percorse buona parte della storia letteraria italiana per approdare alla Commedia.
Il Canto V dell'Inferno è sempre stato tra i più quotati. È innata l'attrazione dell'uomo
nei confronti del peccato in ogni sua forma, quando diviene sinonimo di lussuria chiunque è in
grado di voltarsi, nessuno di non ascoltare.
Hanno lasciato la passione sottomettersi alla ragione durante la loro vita i peccatori carnali travolti
in una bufera perpetua davanti agli occhi di Dante e Virgilio, che insieme si fermano ad ascoltare
la voce delle anime tormentate. «L'aura nera» (v. 51) castiga gli spiriti dannati di cui il poeta vuole
conoscere l'identità, la storia. Semiramide è la prima a esser descritta da Virgilio, è colei che «al
vizio di lussuria fu sì rotta,/ che libito fé licito in sua legge/ per tòrre biasimo in che era condotta»:
il suo nome diviene l'emblema dell'erotia, pur di non essere biasimata nella sua condotta libertina,
la donna istituì una legge affinché la libido fosse permessa a tutti, era la governatrice del regno
d'Egitto.
Vi sono poi Didone e Cleopatra, suicide per amore, e ancora Elena, causa della lunga e
sanguinosa guerra di Troia. Achille, Paride e Tristano sono gli uomini ritratti in questa vicenda, ma
sarà una voce femminile a prendersi carico della narrazione pronunciando i versi tra i più ricordati
della Commedia. È Francesca da Polenta figlia di Guido il Vecchio signore di Ravenna, a parlare
per lei e per il suo amante, Paolo Malatesta. Su quale sia la vera storia vissuta dai due, ricamarono
con abbondante inventiva i critici trecenteschi e più di tutti Boccaccio. L'autore del Decameron
mise in circolazione una voce leggendaria secondo cui Francesca sarebbe stata ingannata credendo
di dover divenire moglie di Paolo in un matrimonio combinato, invece il suo destino la portava nel
talamo del deforme Giancotto Malatesta, fratello del primo. Nonostante il fato avesse deciso ben
altro per i due amanti, la passione si era innescata tra i due, e il loro idillio amoroso li condusse alla
morte.
«Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lanciallotto come amor lo strinse:
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
(vv.127-128)
Eccolo lì, più affilato di una sentenza, più vivido di un'immagine, il verso più sensuale della
storia della letteratura italiana, come lo descrisse il professore: la bocca mi baciò tutto tremante.
Riecheggia nella mente, martellante e ribattuto, con le sue allitterazioni, con la sua intensità. La
narrazione si ferma, non ci è concesso sapere cosa avverrà dopo. Della storia conosciamo solo la
fine. Il peccato di Lancillotto e Ginevra rinasce nell'anima dei due amanti, la lussuria contagiosa
come un'infezione. Dannati i poemi cavallereschi, dannati i loro autori. Se Dante non seppe resistere
alla potenza di un tale racconto («e caddi come corpo morto cade», v. 142), il lettore non può far
altro che lasciarsi andare insieme alla sua guida. E una studentessa di letteratura innamorarsi del
proprio professore.
Serena Mauriello
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