Nei primi anni del Novecento, Firenze
accoglieva a Piazza Vittorio Emanuele – poi Piazza della Repubblica
– la Birreria dei Fratelli Reninghaus, poi ribattezzata Caffè
Giubbe Rosse per il colore delle
giacche dei camerieri. Non
era un bar come tanti in una città come tante, era un caffé
letterario nella città più letteraria d'Italia. Tra i suoi tavolini
passano Campana, Montale, Landolfi, Ungaretti, Gadda, Soffici,
Marinetti e molti altri1.
La varietà dei nomi mostra di riflesso la varietà degli approcci
alla letteratura di chi passò per quel mondo animato di voci e
profumato di caffé.
Accade
che, tra i tanti, ci siano anche i vociani proprio negli anni in cui
i futuristi prendono piede a Firenze.
I primi sono caratterizzati da un modo critico irriverente, i secondi da una violenza inaudita.
I primi sono caratterizzati da un modo critico irriverente, i secondi da una violenza inaudita.
Luglio
1911, sulla rivista «La Voce» appare un articolo di Ardengo Soffici
dal titolo Arte Libera e pittura futurista2.
È una recensione, stroncatura
indemoniata di un'esposizione avvenuta al padiglione della fabbrica
di Ricordi di Milano. Marinetti si sveglia la mattina, legge il
giornale e probabilmente la colazione gli va di traverso. Parla con
Boccioni, con Russolo e Carrà. I loro quadri sono stati distrutti
dalle parole di un tale Soffici, di un vociano. Decidono un'immediata
spedizione punitiva. Consapevoli che gli scrittori de «La Voce»
spesso si riuniscono ai tavolini del caffè Giubbe Rosse, si mettono
in marcia e, una volta entrati, dopo aver chiesto chi fosse Soffici è
subito il putiferio. Soffici, consapevole di quanto aveva detto ma
abituato a risposte di altro genere, è seduto a tavolino con Medardo
Rosso ascoltando la banda militare. Qualcuno gli tocca la spalla, lui
alza la testa e si ritrova a terra. Sono arrivati i futuristi.
«Pronto
per natura a reagire alle offese, specie di quel genere, mi rialzai
di botto, impugnai un bastone di legno fortissimo, che mi era rimasto
tra mano nella caduta, e con quello mi scagliai sull'aggressore, che
ora vedevo spalleggiato da uno o due altri, menando bòtte a ramata
nel mucchio»3:
dopo un momento di sgomento Soffici risponde e in un attimo è il
putiferio. Medardo Rosso cerca inutilmente di separarli, i tavolini
si rovesciano, vicini che scappano gridando, camerieri che cercano di
ristabilire l'ordine. Alla fine arriva anche la polizia e, come
racconta Carrà stesso, gli uni e gli altri furono portati al
commissariato ma solo per un ammonimento con la promessa che tutto
sarebbe finito lì.
Ci
si può fidare di un artista? Per la mattina dopo i futuristi avevano
deciso il ritorno a Milano, facile immaginare chi incontrarono alla
stazione. Questa volta per i vociani ci sono anche Prezzolini,
Slataper e qualche altro ancora. «Giunti a breve distanza ci
lanciammo gli uni contro gli altri, alla rinfusa, rabbia indicibile.
Il parapiglia generale assunse aspetti drammatici; la gente accorreva
per cercare di fermare quella ridda di indemoniati» racconta Carrà.
Poi di nuovo in commissariato4.
Perché
raccontare con tanta attenzione di nient'altro che una rissa?
Perché
a quei tempi nella letteratura si credeva, era un amore vero e
incontrastato. La letteratura era ideologia, sinonimo di un modo di
approcciarsi alla vita stessa. La letteratura era l'orgoglio, per cui
si fa a botte per strada e si passa una notte in questura.
Serena Mauriello
1
Cfr. Stefano Lanuzza, Firenze degli scrittori del Novecento,
Napoli, Alfredo Guida Editore, 2001.
2
Ardengo Soffici, Arte libera e pittura futurista,
«La Voce», 22 Luglio 1911, 25.
3
Ardengo Soffici, Autoritratto
d'artista nel quadro del suo tempo, Vallecchi,
Firenze 1951-55; poi col titolo Al
caffè,
in Caffè
letterari,
II, a cura di Enrico Falqui, Canesi editore, Roma 1962, p. 498.
4
Cfr. Mario Scaffidi Abbate, I glorosi Caffè storici d'Italia.
Fra storia, politica, arte letteratura, patriottismo e libertà,
Tropea, Meligrana, 2014.