La fine del libro di cui stiamo per parlarvi è ancora in corso, si trova nell’introduzione. E l’inizio, datato il lontano 2009, rappresenta lo scoccare di un tragitto che nei suoi disperati tentativi di concludersi non ha fatto che incontrare colpi, contraccolpi e contrinui rimandi.
Protagonista è la testimonianza di Marzia Schenetti, reduce di una storia di stalking da parte di quel “Gentiluomo” già narrato in un omonimo libro uscito anni fa. Personaggi principali, oltre alle altre altre donne che assieme a lei prendono parola nel capitolo “Lettere dal fronte”, sono quelle “Gentildonne” che operano nell’ambito del contrasto alla violenza tra reti associative e istituzioni.
“Le Gentildonne” comincia con la narrazione di quello che significa riprendersi la propria vita se si è una donna etichettata ormai come “vittima”. Vicenda dopo vicenda, passo autobiografico dopo passo autobiografico, raggiunge pian piano tutte le sfaccettature di un mondo istituzionale che l’autrice stessa ha definito una sorta di gioco dell’oca: “Hai presente quando arrivi ad un certo punto del tuo tragitto e pare che all’improvviso devi ricominciare dall’inizio?”.
Ma cominciamo dalla fine.
Stanno uscendo in questi giorni le prime cento copie di “Le Gentildonne”. L’autrice, poco tempo prima della messa in stampa, ha dovuto lavorare al volo su un’introduzione che aggiungesse al racconto una nota più attuale del libro stesso.
Tra la notizia di pubblicazione e la data di uscita, infatti, è intercorsa una vicenda molto importante: la tentata censura del libro da parte di alcune realtà associative.
“Il motivo – spiega Marzia – è stata l’anteprima del libro lanciata a dicembre su un’intervista, in cui ho preso parola nell’ambito delle vicende di Mafia Capitale, denunciando fatti come la strumentalizzazione che spesso avviene nell’ambito del contrasto alla violenza, gli aiuti che troppo spesso non arrivano da parte del mondo associativo e le carriere che però al contempo ha modo di fare quell’”altro strato” di donne che ci lavora dentro”.
La risposta dell’autrice è stata quella di uscire con queste prime copie in attesa di risposta da parte di altre case editrici.“Ho deciso di aggiungere questa introduzine innanzitutto perché voglio che il lettore sappia che in Italia non c’è libertà di opinione e molto spesso neanche libertà di raccontare la propria storia. Il libro, di cui al momento nessuno conosce il contenuto se non chi ha curato post e prefazione, non parla solo di oponioni, ma soprattutto di storie: la mia e quelle di tante altre donne che nell’ultimo capitolo prendono voce in una serie di lettere”.
Ho chiacchierato un po’ con Marzia, che tra un pacchetto di sigarette e il suo vecchio cagnolone in amore mi ha raccontato alcuni aspetti di questa storia...
Le Gentildonne racconta molte storie, ma è innanzitutto un viaggio autobiografico. Chi è Marzia?
Marzia è una donna che da quasi sei anni cerca di ricostruirsi una vita “pseudo-normale”, e questo in seguito a una vicenda di violenza e di stalking. Uno stalking che in questi sei anni, tra scomparse e riesplosioni, non mi hai mai abbandonata. Basti pensare che l’ultima conversazione con la caserma dei Carabinieri si è tenuta due giorni fa.
Come tante altre donne, mi sono affacciata più volte e in diversi modi al mondo – non solo quello di richiesta d’aiuto esplicito e immediato - dell’associazionismo e delle istituzioni; ho conosciuto moltissime realtà associative e una miriade di personaggi istituzionali. E nonostante ciò, come tante altre donne mi ritrovo ancora oggi a lottare per ricostruirmi con la difficoltà di chi lo fa da sola: nel momento in cui tu denunci, infatti, non c’è nessuno che ti protegge, tutela, accompagna, sostiene. Che viene con te dal legale o nell’aula di un tribunale. E il percorso che intraprendi è lungo.
Durante questa strada, il mio principale strumento di sfogo e appiglio alla vita è stata l’arte nelle sue varie forme e misure: scrittura, pittura, musica, fotografia. Quella della scrittura, in particolare, ha rappresentato qualcosa di molto importante, perché mi ha portata alla pubblicazione della prima opera “Il Gentiluomo”, con la quale mi sono completamente “denudata” sviscerando anche gli aspetti più difficili della mia storia, rendendo pubblica quella che era la mia vita.
Tant’è che il libro ha raggiunto anche il panorama nazionale: ho partecipato a programmi televisivi sulla violenza contro le donne, sono diventata una storia pubblica. E nel libro “Le Gentildonne” parlo molto di questo aspetto, perché ho creduto in un primo momento che il “pubblicizzare” la mia esperienza fosse qualcosa di buono. Ho pensato che essere una vittima pubblica potesse garantirmi una sorta di “tutela silenziosa” da parte del mondo che mi circondava. Ma non è stato così: dopo che ti appiccicano l’etichetta della “vittima”, riprenderti la tua vita come donna e come artista è estremamente faticoso. L’etichetta te l’appiccicano lì, e staccarsela è drammatico.
Così, lottando tra ansie e stress, in questi cinque anni ho prodotto libri, opere teatrali, musica, pittura. Tutte cose che potessero darmi il senso della vita.
La ricostruzione può essere una cosa altamente positiva, soprattutto se avviene con strumenti che non sono valium e analisi di cinque o dieci anni, ma il fare le cose per se stessi. Dall’altra parte della medaglia, però, c’è l’amara nota di dover fare questa cosa in uno stato di completo abbandono da parte della “grande macchina” associativa e istituzionale di contrasto alla violenza.
Bene. Partiamo dal principio: cos’è lo stalking? Come comincia la sua percezione e come prende forma nel tempo?
Io credo che lo stalking sia un fenomeno ancora veramente poco conosciuto. Ieri al telefono con una mia amica le raccontavo che in questa fase della mia vita non è che io abbia più paura, sono in ansia. Lo stato dello stalking è uno stato che ti lascia il più delle volte in stati di ansia e stress e in una continua sensazione di controllo e persecuzione. Senti di essere una preda, e non solo una preda fisica: il punto, infatti, non è esclusivamente la possibilità di essere assalita da un momento all’altro da parte dello stalker (cosa che peraltro succede pure spesso), ma già il fatto che sentirti spiata, pedinata in ogni cosa che fai, condizionata perennemente da una persona che ti sta col fiato sul collo, ti cambia completamente l’esistenza. Ti condiziona a tal punto da non permetterti più di condurre una normale quotidianità. Ho fatto questa premessa perché spesso si tende a confondersi tra la violenza domestica, quella che avviene durante una relazione, e quest’altro genere di violenza.
La forma di stalking più comune è quella dovuta alla fine di una relazione e dalla sua non accettazione da parte di un partner, e comincia con una serie di atti persecutori come sms, minacce per e-mail, telefonate la notte, pedinamenti, diffamazioni nei luoghi tramite gli amici che tu frequenti e altre azioni che vanno a condizionare la tua vita .
Nel mio caso, gli atti persecutori sono cominciati nel momento in cui ho deciso di chiudere la relazione, che aveva già visto numerose forme di violenza fisica, economica e psicologica.
Ma va anche detto che lo stalking è una violenza che si può riscontrare anche in altri ambiti, come il lavoro, le amicizie, il vicinato e può colpire senza distinzione di genere e di ruoli.
Il sottotitolo del libro è “dopo lo stalking”. E dopo lo stalking?
Premessa: quando vieni da una situazione come la mia, ovvero da una relazione violenta, la tua autostima è sotto i piedi. Devi fare i conti con i sensi di colpa, con la vergogna. Ti chiedi continuamente “Ma tu dov’eri?”.
In questo stato, quando ti trovi a dover affrontare la tua ricostruzione, parti con l’idea che in seguito alla denuncia ci sarà l’associazione che ti aiuterà con le denunce, nelle aule dei tribunali, con il lavoro. Ma in realtà di tutto questo c’è ben poco, e ti ritrovi con l’autostima che si abbassa di giorno in giorno in maniera tremenda. Non riesci a tracciare un futuro, non hai gli strumenti per farlo!
A maggior ragione, poi, se provi a fare delle piccole cose e queste cose vengono completamente snobbate, è ovvio che questo è ancor più violento!
Per dirtene una, fin da quando abbiamo iniziato a scrivere l’opera teatrale “Evil, il Recital” - due anni prima della messa in scena - penso di aver scritto a una cinquantina di associazioni e una ventina di persone istituzionali. Non chiedevo aiuti in contributi, ma ingenuamente mettevo l’opera a disposizione delle associazioni per aiutale a raccogliere fondi. Il valore del coinvolgere donne vittime di violenza in un’iniziativa artistica era per me assoluto. E il fatto che questa proposta non sia stata considerata, la dice molto lunga su tutta la questione! Se io mi propongo come vittima vado bene, se rappresento qualcuno che vuole mettersi in gioco, questo non va più bene...
Ho avuto poi bisogno di essere indirizzata nel lavoro, verso un posto dove potermi appoggiare e negli spostamenti da effettuare in un periodo in cui mi sentivo particolarmente in pericolo, e quindi mi sono rivolta a una serie di figure istituzionali che peraltro mi conoscevano molto bene, chiedendo se potessero aiutarmi. Risultato: rimandi su rimandi, un’associazione mi mandava da quella presso cui ero già stata, il giro dell’oca. E l’unica risposta che mi sono sentita dare dopo mesi di contatti con uffici di zona, provincia e assistenti sociali, è stata che mi sarei potuta iscrivere ad un ufficio di collocamento!
Risposta particolarmente emblematica, se si considera che io, come molte altre donne, all’ufficio di collocamento mi ero già iscritta nel lontano 2009.
E qui devo fare una precisazione: secondo le statistiche date dalle associazioni stesse, il ben 70% di coloro che si rivolgono ai centri antiviolenza, è composto da italiane di cultura medio-alta e provenienti da ceto medio. Qual è il valore aggiunto del contributo di queste realtà associative? Non sono risposte banali, quelle che suggeriscono di intraprendere un percorso psicoterapeutico ed iscriversi a uffici di collocamento?
Come è possibile non capire quanto sia mortificante ricevere risposte di questo tipo o brochure da mettere in tasca?
L’aiuto che deve ricevere una donna nel momento in cui chiede aiuto ad una rete di associazioni ed istituzioni deve essere concreto. E questa concretezza, il mondo di contrasto alla violenza non è riuscito a garantircela.
Seguendo il tuo discorso, percepisco come una sorta di “svalutazione” della vittima da parte di queste persone. Sbaglio?
La risposta potrebbe essere il fatto che non siano preparate. Ma potrebbe essere anche che nonostante siano preparate e lo sappiano benissimo che effettivamente non è “producente” risolvere i problemi.
È proprio da qui che parte la prossima domanda: quando si parla di contrasto alla violenza si dovrebbe parlare di volontariato, ma nel libro si prova a spiegare che non è sempre così. Ti va di farci una panoramica di quella che è a tuo avviso la situazione “carrieristica” in questo mondo?
È un ragionamento molto, molto complesso. Diciamo che i centri antiviolenza sono nati molti anni or sono sotto l’aura del volontariato. Ciò che mi disturba è che si continua a usare questa parola sfruttando un concetto che non è più la realtà: i volontari ci sono, si, ma rappresentano una netta minoranza rispetto a quella che è diventata una realtà stracolma di strutture quasi aziendali. E tutto ciò, ripeto, nonostante si parli di Onlus.
Io non sto contestando il fatto che una persona venga pagata per il lavoro che svolge, anzi. Ma questo, visto che le associazioni Onlus utilizzano fondi pubblici, dovrebbe implicare la massima trasparenza. Trasparenza che però non c’è! I bilanci di queste associazioni non sono pubblici. Quello che occorre sfatare è il mito secondo cui le donne che operano all’interno di questi centri lavorino senza percepire denaro in nome della causa. Non è così: alcune di queste donne, sul contrasto alla violenza ci hanno costruito la propria carriera...
Un’altra grande forma di discriminazione all’interno di queste associazioni, poi, è il fatto che non è assolutamente contemplata l’idea di fare entrare come volontarie anche le ex vittime di violenza e tantomeno di intavolare confronti. E ciò, mi porta a fare un ragionamento molto più ampio, per così dire sociale: mi viene da pensare a “strati di donne”. Come se le donne proletarie possano avere relazioni solo con donne proletarie, le donne borghesi solo con donne borghesi e le donne vittime solo con donne vittime.
Tradotto: mi viene da pensare che questa capacità di dialogo con le donne sia in realtà una grande bufala, perché non esiste dialogo tra donna ex vittima di violenza e presidente di un’associazione. Anzi, il dialogo esiste, ma io devo restare una vittima e lei una presidente.
Sulla base della tua esperienza, cosa ti aspetteresti da un centro antiviolenza?
Secondo la mia esperienza e secondo l’esperienza di tante altre donne con cui ho condiviso storie, quello che sicuramente pesa di più è l’assenza di aiuto da parte delle associazioni dopo la denuncia e durante tutta la vicenda processuale.
Coloro che denunciano entrano nelle aulee del tribunale non da vittime ma da colpevoli. E ciò che succede lì dentro è una cosa a mio avviso tragica. Io inviterei le persone a partecipare ogni tanto a qualche processo...
Al di là delle lungaggini, il costo che ha un processo sulle energie di una persona è altissimo, sia i giorni prima che quelli dopo! E se pensi che le azioni dei primi centri antiviolenza sono partite negli anni Settanta andando proprio in massa ai primi grandi processi (come ad esempio il caso dello stupro del Circeo), oggi questa cosa non c’è!
Ciò che a mio avviso sarebbe giusto e logico – anche perché spezzerebbe delle catene assurde di giochi, ballottaggi e tempi, è che l’associazione si prendesse carico delle vicende processuali e seguisse le vittime nei processi. I balli in piazza il 25 di novembre non cambiano la vita alle donne che hanno da ricostruirsi e da fare questo calvario giudiziario. C’è bisogno di presenza concreta. Questo, io, mi aspetterei e mi aspettavo anni fa.
Hai vissuto sulla tua pelle il prezzo della vittimizzazione. Cosa ne hai imparato? E come va affrontata l’assistenza a una donna?
Secondo me la vittimizzazione è un altro grosso dramma, perché o lo vivi male come l’ho vissuto io, addannandoti per uscire dall’etichetta e vederti riconosciuta come donna, come storia, come lavoro e non solo come vittima; oppure, peggio, rimani “impiantata” lì con tutta la drammaticità della rabbia e dell’incomprensione.
A mio avviso, un modo fondamentale sarebbe innazitutto ascoltare le persone, e non strumentalizzare tutto ciò che può tornar utile ad un’eventuale istituzione, associazione o persona, ma ascoltare il loro bisogno. Nel momento in cui ascolti le necessità, sai anche quali sono i punti fondamentali per far si che in questo specifico caso una donna possa ricominciare a camminare da sola, a ricostruirsi piano piano la serenità. E quindi si parte innanzitutto dall’aiuto nell’ambito del lavoro ( e del reintegro al lavoro delle vittime di violenza, fino a un anno e mezzo fa, non se ne parlava neppure! Se ne inizia a parlare ora, e nei termini che spiego all’interno del libro). È ovvio che quando una donna scappa di casa, da un uomo o da una situazione difficile abbia dei problemi economici. A me una volta è stato risposto “noi associazioni non siamo tenute a tenere fondi per le vittime”, e questa la ritengo veramente una brutta risposta: quello dell’aiuto economico dovrebbe essere il primo punto su cui lavorare per aiutare una donna a riprendersi la propria dignità. Se posso dirlo, quello a cui io ho maggiormente fatto caso è che in molte di queste realtà associative, la preoccupazione principale di queste donne sia quella di avere dei bei tappeti firmati! Quando uso la parola “demagogico” io intendo un po’ questo: l’incapacità di individuare il bisogno effettivo della donna o nei casi peggiori di avere priorità lontane dalla risoluzione dei bisogni delle vittime.
A chi consigli la lettura di questo libro? e perché?
Io principalmente la consiglio alle donne che me l’hanno censurato. Innanzitutto perché hanno tentato la censura senza neanche conoscerlo, e poi perché fondamentalmente è un libro che parla d’amore!
Il concetto d’amore, loro dovrebbero saperlo meglio di me, è basato sui conflitti e sulle diversità, sulla volontà di dialogare per comprendere quel che non si è afferrato dell’altro. Il libro, con tutta la consapevolezza del fatto che poteva essere provocatorio e far discutere, è partito con la volontà di cercare un dialogo. L’obiettivo principale è aprire un canale tra quelle che sono le necessità di chi si rivolge alle istituzioni e alle associazioni e l’orecchio un po’ “ottuso” di queste ultime.
A doverlo leggere, dunque, sono innanzitutto le figure che a vario titolo si occupano del contrasto alla violenza. La narrazione è semplice, racconta anche fatti della quotidianità, che seguendo alcuni vissuti provano a dare un’idea di come le vicende in cui può incappare una donna lungo questo percorso siano spesso assolutamente paradossali.
@Giulscapozzi
Protagonista è la testimonianza di Marzia Schenetti, reduce di una storia di stalking da parte di quel “Gentiluomo” già narrato in un omonimo libro uscito anni fa. Personaggi principali, oltre alle altre altre donne che assieme a lei prendono parola nel capitolo “Lettere dal fronte”, sono quelle “Gentildonne” che operano nell’ambito del contrasto alla violenza tra reti associative e istituzioni.
“Le Gentildonne” comincia con la narrazione di quello che significa riprendersi la propria vita se si è una donna etichettata ormai come “vittima”. Vicenda dopo vicenda, passo autobiografico dopo passo autobiografico, raggiunge pian piano tutte le sfaccettature di un mondo istituzionale che l’autrice stessa ha definito una sorta di gioco dell’oca: “Hai presente quando arrivi ad un certo punto del tuo tragitto e pare che all’improvviso devi ricominciare dall’inizio?”.
Ma cominciamo dalla fine.
Stanno uscendo in questi giorni le prime cento copie di “Le Gentildonne”. L’autrice, poco tempo prima della messa in stampa, ha dovuto lavorare al volo su un’introduzione che aggiungesse al racconto una nota più attuale del libro stesso.
Tra la notizia di pubblicazione e la data di uscita, infatti, è intercorsa una vicenda molto importante: la tentata censura del libro da parte di alcune realtà associative.
“Il motivo – spiega Marzia – è stata l’anteprima del libro lanciata a dicembre su un’intervista, in cui ho preso parola nell’ambito delle vicende di Mafia Capitale, denunciando fatti come la strumentalizzazione che spesso avviene nell’ambito del contrasto alla violenza, gli aiuti che troppo spesso non arrivano da parte del mondo associativo e le carriere che però al contempo ha modo di fare quell’”altro strato” di donne che ci lavora dentro”.
La risposta dell’autrice è stata quella di uscire con queste prime copie in attesa di risposta da parte di altre case editrici.“Ho deciso di aggiungere questa introduzine innanzitutto perché voglio che il lettore sappia che in Italia non c’è libertà di opinione e molto spesso neanche libertà di raccontare la propria storia. Il libro, di cui al momento nessuno conosce il contenuto se non chi ha curato post e prefazione, non parla solo di oponioni, ma soprattutto di storie: la mia e quelle di tante altre donne che nell’ultimo capitolo prendono voce in una serie di lettere”.
Ho chiacchierato un po’ con Marzia, che tra un pacchetto di sigarette e il suo vecchio cagnolone in amore mi ha raccontato alcuni aspetti di questa storia...
Le Gentildonne racconta molte storie, ma è innanzitutto un viaggio autobiografico. Chi è Marzia?
Marzia è una donna che da quasi sei anni cerca di ricostruirsi una vita “pseudo-normale”, e questo in seguito a una vicenda di violenza e di stalking. Uno stalking che in questi sei anni, tra scomparse e riesplosioni, non mi hai mai abbandonata. Basti pensare che l’ultima conversazione con la caserma dei Carabinieri si è tenuta due giorni fa.
Come tante altre donne, mi sono affacciata più volte e in diversi modi al mondo – non solo quello di richiesta d’aiuto esplicito e immediato - dell’associazionismo e delle istituzioni; ho conosciuto moltissime realtà associative e una miriade di personaggi istituzionali. E nonostante ciò, come tante altre donne mi ritrovo ancora oggi a lottare per ricostruirmi con la difficoltà di chi lo fa da sola: nel momento in cui tu denunci, infatti, non c’è nessuno che ti protegge, tutela, accompagna, sostiene. Che viene con te dal legale o nell’aula di un tribunale. E il percorso che intraprendi è lungo.
Durante questa strada, il mio principale strumento di sfogo e appiglio alla vita è stata l’arte nelle sue varie forme e misure: scrittura, pittura, musica, fotografia. Quella della scrittura, in particolare, ha rappresentato qualcosa di molto importante, perché mi ha portata alla pubblicazione della prima opera “Il Gentiluomo”, con la quale mi sono completamente “denudata” sviscerando anche gli aspetti più difficili della mia storia, rendendo pubblica quella che era la mia vita.
Tant’è che il libro ha raggiunto anche il panorama nazionale: ho partecipato a programmi televisivi sulla violenza contro le donne, sono diventata una storia pubblica. E nel libro “Le Gentildonne” parlo molto di questo aspetto, perché ho creduto in un primo momento che il “pubblicizzare” la mia esperienza fosse qualcosa di buono. Ho pensato che essere una vittima pubblica potesse garantirmi una sorta di “tutela silenziosa” da parte del mondo che mi circondava. Ma non è stato così: dopo che ti appiccicano l’etichetta della “vittima”, riprenderti la tua vita come donna e come artista è estremamente faticoso. L’etichetta te l’appiccicano lì, e staccarsela è drammatico.
Così, lottando tra ansie e stress, in questi cinque anni ho prodotto libri, opere teatrali, musica, pittura. Tutte cose che potessero darmi il senso della vita.
La ricostruzione può essere una cosa altamente positiva, soprattutto se avviene con strumenti che non sono valium e analisi di cinque o dieci anni, ma il fare le cose per se stessi. Dall’altra parte della medaglia, però, c’è l’amara nota di dover fare questa cosa in uno stato di completo abbandono da parte della “grande macchina” associativa e istituzionale di contrasto alla violenza.
Bene. Partiamo dal principio: cos’è lo stalking? Come comincia la sua percezione e come prende forma nel tempo?
Io credo che lo stalking sia un fenomeno ancora veramente poco conosciuto. Ieri al telefono con una mia amica le raccontavo che in questa fase della mia vita non è che io abbia più paura, sono in ansia. Lo stato dello stalking è uno stato che ti lascia il più delle volte in stati di ansia e stress e in una continua sensazione di controllo e persecuzione. Senti di essere una preda, e non solo una preda fisica: il punto, infatti, non è esclusivamente la possibilità di essere assalita da un momento all’altro da parte dello stalker (cosa che peraltro succede pure spesso), ma già il fatto che sentirti spiata, pedinata in ogni cosa che fai, condizionata perennemente da una persona che ti sta col fiato sul collo, ti cambia completamente l’esistenza. Ti condiziona a tal punto da non permetterti più di condurre una normale quotidianità. Ho fatto questa premessa perché spesso si tende a confondersi tra la violenza domestica, quella che avviene durante una relazione, e quest’altro genere di violenza.
La forma di stalking più comune è quella dovuta alla fine di una relazione e dalla sua non accettazione da parte di un partner, e comincia con una serie di atti persecutori come sms, minacce per e-mail, telefonate la notte, pedinamenti, diffamazioni nei luoghi tramite gli amici che tu frequenti e altre azioni che vanno a condizionare la tua vita .
Nel mio caso, gli atti persecutori sono cominciati nel momento in cui ho deciso di chiudere la relazione, che aveva già visto numerose forme di violenza fisica, economica e psicologica.
Ma va anche detto che lo stalking è una violenza che si può riscontrare anche in altri ambiti, come il lavoro, le amicizie, il vicinato e può colpire senza distinzione di genere e di ruoli.
Il sottotitolo del libro è “dopo lo stalking”. E dopo lo stalking?
Premessa: quando vieni da una situazione come la mia, ovvero da una relazione violenta, la tua autostima è sotto i piedi. Devi fare i conti con i sensi di colpa, con la vergogna. Ti chiedi continuamente “Ma tu dov’eri?”.
In questo stato, quando ti trovi a dover affrontare la tua ricostruzione, parti con l’idea che in seguito alla denuncia ci sarà l’associazione che ti aiuterà con le denunce, nelle aule dei tribunali, con il lavoro. Ma in realtà di tutto questo c’è ben poco, e ti ritrovi con l’autostima che si abbassa di giorno in giorno in maniera tremenda. Non riesci a tracciare un futuro, non hai gli strumenti per farlo!
A maggior ragione, poi, se provi a fare delle piccole cose e queste cose vengono completamente snobbate, è ovvio che questo è ancor più violento!
Per dirtene una, fin da quando abbiamo iniziato a scrivere l’opera teatrale “Evil, il Recital” - due anni prima della messa in scena - penso di aver scritto a una cinquantina di associazioni e una ventina di persone istituzionali. Non chiedevo aiuti in contributi, ma ingenuamente mettevo l’opera a disposizione delle associazioni per aiutale a raccogliere fondi. Il valore del coinvolgere donne vittime di violenza in un’iniziativa artistica era per me assoluto. E il fatto che questa proposta non sia stata considerata, la dice molto lunga su tutta la questione! Se io mi propongo come vittima vado bene, se rappresento qualcuno che vuole mettersi in gioco, questo non va più bene...
Ho avuto poi bisogno di essere indirizzata nel lavoro, verso un posto dove potermi appoggiare e negli spostamenti da effettuare in un periodo in cui mi sentivo particolarmente in pericolo, e quindi mi sono rivolta a una serie di figure istituzionali che peraltro mi conoscevano molto bene, chiedendo se potessero aiutarmi. Risultato: rimandi su rimandi, un’associazione mi mandava da quella presso cui ero già stata, il giro dell’oca. E l’unica risposta che mi sono sentita dare dopo mesi di contatti con uffici di zona, provincia e assistenti sociali, è stata che mi sarei potuta iscrivere ad un ufficio di collocamento!
Risposta particolarmente emblematica, se si considera che io, come molte altre donne, all’ufficio di collocamento mi ero già iscritta nel lontano 2009.
E qui devo fare una precisazione: secondo le statistiche date dalle associazioni stesse, il ben 70% di coloro che si rivolgono ai centri antiviolenza, è composto da italiane di cultura medio-alta e provenienti da ceto medio. Qual è il valore aggiunto del contributo di queste realtà associative? Non sono risposte banali, quelle che suggeriscono di intraprendere un percorso psicoterapeutico ed iscriversi a uffici di collocamento?
Come è possibile non capire quanto sia mortificante ricevere risposte di questo tipo o brochure da mettere in tasca?
L’aiuto che deve ricevere una donna nel momento in cui chiede aiuto ad una rete di associazioni ed istituzioni deve essere concreto. E questa concretezza, il mondo di contrasto alla violenza non è riuscito a garantircela.
Seguendo il tuo discorso, percepisco come una sorta di “svalutazione” della vittima da parte di queste persone. Sbaglio?
La risposta potrebbe essere il fatto che non siano preparate. Ma potrebbe essere anche che nonostante siano preparate e lo sappiano benissimo che effettivamente non è “producente” risolvere i problemi.
È proprio da qui che parte la prossima domanda: quando si parla di contrasto alla violenza si dovrebbe parlare di volontariato, ma nel libro si prova a spiegare che non è sempre così. Ti va di farci una panoramica di quella che è a tuo avviso la situazione “carrieristica” in questo mondo?
È un ragionamento molto, molto complesso. Diciamo che i centri antiviolenza sono nati molti anni or sono sotto l’aura del volontariato. Ciò che mi disturba è che si continua a usare questa parola sfruttando un concetto che non è più la realtà: i volontari ci sono, si, ma rappresentano una netta minoranza rispetto a quella che è diventata una realtà stracolma di strutture quasi aziendali. E tutto ciò, ripeto, nonostante si parli di Onlus.
Io non sto contestando il fatto che una persona venga pagata per il lavoro che svolge, anzi. Ma questo, visto che le associazioni Onlus utilizzano fondi pubblici, dovrebbe implicare la massima trasparenza. Trasparenza che però non c’è! I bilanci di queste associazioni non sono pubblici. Quello che occorre sfatare è il mito secondo cui le donne che operano all’interno di questi centri lavorino senza percepire denaro in nome della causa. Non è così: alcune di queste donne, sul contrasto alla violenza ci hanno costruito la propria carriera...
Un’altra grande forma di discriminazione all’interno di queste associazioni, poi, è il fatto che non è assolutamente contemplata l’idea di fare entrare come volontarie anche le ex vittime di violenza e tantomeno di intavolare confronti. E ciò, mi porta a fare un ragionamento molto più ampio, per così dire sociale: mi viene da pensare a “strati di donne”. Come se le donne proletarie possano avere relazioni solo con donne proletarie, le donne borghesi solo con donne borghesi e le donne vittime solo con donne vittime.
Tradotto: mi viene da pensare che questa capacità di dialogo con le donne sia in realtà una grande bufala, perché non esiste dialogo tra donna ex vittima di violenza e presidente di un’associazione. Anzi, il dialogo esiste, ma io devo restare una vittima e lei una presidente.
Sulla base della tua esperienza, cosa ti aspetteresti da un centro antiviolenza?
Secondo la mia esperienza e secondo l’esperienza di tante altre donne con cui ho condiviso storie, quello che sicuramente pesa di più è l’assenza di aiuto da parte delle associazioni dopo la denuncia e durante tutta la vicenda processuale.
Coloro che denunciano entrano nelle aulee del tribunale non da vittime ma da colpevoli. E ciò che succede lì dentro è una cosa a mio avviso tragica. Io inviterei le persone a partecipare ogni tanto a qualche processo...
Al di là delle lungaggini, il costo che ha un processo sulle energie di una persona è altissimo, sia i giorni prima che quelli dopo! E se pensi che le azioni dei primi centri antiviolenza sono partite negli anni Settanta andando proprio in massa ai primi grandi processi (come ad esempio il caso dello stupro del Circeo), oggi questa cosa non c’è!
Ciò che a mio avviso sarebbe giusto e logico – anche perché spezzerebbe delle catene assurde di giochi, ballottaggi e tempi, è che l’associazione si prendesse carico delle vicende processuali e seguisse le vittime nei processi. I balli in piazza il 25 di novembre non cambiano la vita alle donne che hanno da ricostruirsi e da fare questo calvario giudiziario. C’è bisogno di presenza concreta. Questo, io, mi aspetterei e mi aspettavo anni fa.
Hai vissuto sulla tua pelle il prezzo della vittimizzazione. Cosa ne hai imparato? E come va affrontata l’assistenza a una donna?
Secondo me la vittimizzazione è un altro grosso dramma, perché o lo vivi male come l’ho vissuto io, addannandoti per uscire dall’etichetta e vederti riconosciuta come donna, come storia, come lavoro e non solo come vittima; oppure, peggio, rimani “impiantata” lì con tutta la drammaticità della rabbia e dell’incomprensione.
A mio avviso, un modo fondamentale sarebbe innazitutto ascoltare le persone, e non strumentalizzare tutto ciò che può tornar utile ad un’eventuale istituzione, associazione o persona, ma ascoltare il loro bisogno. Nel momento in cui ascolti le necessità, sai anche quali sono i punti fondamentali per far si che in questo specifico caso una donna possa ricominciare a camminare da sola, a ricostruirsi piano piano la serenità. E quindi si parte innanzitutto dall’aiuto nell’ambito del lavoro ( e del reintegro al lavoro delle vittime di violenza, fino a un anno e mezzo fa, non se ne parlava neppure! Se ne inizia a parlare ora, e nei termini che spiego all’interno del libro). È ovvio che quando una donna scappa di casa, da un uomo o da una situazione difficile abbia dei problemi economici. A me una volta è stato risposto “noi associazioni non siamo tenute a tenere fondi per le vittime”, e questa la ritengo veramente una brutta risposta: quello dell’aiuto economico dovrebbe essere il primo punto su cui lavorare per aiutare una donna a riprendersi la propria dignità. Se posso dirlo, quello a cui io ho maggiormente fatto caso è che in molte di queste realtà associative, la preoccupazione principale di queste donne sia quella di avere dei bei tappeti firmati! Quando uso la parola “demagogico” io intendo un po’ questo: l’incapacità di individuare il bisogno effettivo della donna o nei casi peggiori di avere priorità lontane dalla risoluzione dei bisogni delle vittime.
A chi consigli la lettura di questo libro? e perché?
Io principalmente la consiglio alle donne che me l’hanno censurato. Innanzitutto perché hanno tentato la censura senza neanche conoscerlo, e poi perché fondamentalmente è un libro che parla d’amore!
Il concetto d’amore, loro dovrebbero saperlo meglio di me, è basato sui conflitti e sulle diversità, sulla volontà di dialogare per comprendere quel che non si è afferrato dell’altro. Il libro, con tutta la consapevolezza del fatto che poteva essere provocatorio e far discutere, è partito con la volontà di cercare un dialogo. L’obiettivo principale è aprire un canale tra quelle che sono le necessità di chi si rivolge alle istituzioni e alle associazioni e l’orecchio un po’ “ottuso” di queste ultime.
A doverlo leggere, dunque, sono innanzitutto le figure che a vario titolo si occupano del contrasto alla violenza. La narrazione è semplice, racconta anche fatti della quotidianità, che seguendo alcuni vissuti provano a dare un’idea di come le vicende in cui può incappare una donna lungo questo percorso siano spesso assolutamente paradossali.
Intervista di Giulia Capozzi
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