Siamo al terzo appuntamento di Tutùm
Narrativa e questa volta a prendere la penna in mano è Vincenzo
Perez con un racconto londinese e un po' piccante...
Lavoravo ormai da un mese in quel ristorante ad Ealing, West London, quando ci andai la prima volta. In un ristorante di un iraniano che s'era innamorato dell'Italia, a tal punto da arricchirsi grazie ai piatti tipici del Bel Paese: lui, della lontana Teheran, chissà perché. Il locale, piccolo e discreto, era bazzicato perlopiù da pensionati ed orientali con la passione per le lasagne in microonde e il riso con le cozze surgelate. Grazie a mio zio, siciliano come me e grande chef senza alcun titolo, ero riuscito a farmi assumere come aiuto-cuoco. Non avevo mai messo piede prima in una cucina che non fosse quella di casa mia, tra l'altro sempre da voyeur, mai da protagonista. E ovviamente venivo retribuito in nero, ogni due turni, con la paga oraria minima. Fresco di laurea, ero partito per fare esperienza e per migliorare l'inglese, non mi importava. Quanta ingenuità in quelle parole, col senno di poi.
Si lavorava tutti i giorni, tanto. Prendevo l'autobus nel pomeriggio per ritornare, stremato, in tarda serata, voglioso di un bagno e di sonno. Uscivo solo la mattina e, del resto, non conoscevo nessuno. Il lavapiatti cingalese mi accoglieva sempre sorridendo. E dire che era quello che si sbatteva maggiormente, tra stoviglie e mansioni di pulizia svolte a ritmi per me impossibili. Ricevendo in cambio le stesse sterline che prendevo io, e molti insulti in più: Londra, anche Londra, sa essere ingiusta e razzista. In quella minuscola cucina stava racchiuso un microcosmo della vita di oggi, la sua voracità da tritatutto: se non ci facevi l'abitudine, ne uscivi presto e male. Il boss, pur nel suo esser lunatico ed imprevedibile come il cielo della City, tuttavia aveva dei momenti di brio. E in uno di questi mi stuzzicava con le sue dorate imprese dongiovannesche. Fu lui a darmi quel numero.
Dopo un mese mi decisi a chiamare. Fissai un appuntamento, come se si trattasse di una visita medica. Avevo voglia, una voglia tremenda, che quella città, che di continuo affitta e vende qualsiasi cosa, aveva reso irrefrenabile. Le mani già callose e tagliuzzate qua e là mi chiedevano uno sfogo che non si concludesse in loro e il desiderio s'era stufato di penare in solitudine. Per questo lasciai che le dita digitassero quel numero. Presi la metro e scesi a Bayswater, in zona 1. L'indirizzo che mi era stato mandato per sms corrispondeva a degli appartamenti signorili. Ero arrivato. Suonai al citofono e una voce bisbigliò di salire le scale sulla destra, fino al terzo piano. Con timore e curiosità, divorai i gradini. Il rumore dei tacchi alti mi singhiozzava nel petto.
La porta si aprì il tanto che bastava a farmi entrare e si richiuse immediatamente. Avevo solo mezzora; era bellissima. Un completo intimo esaltava la sua femminilità, il seno, i glutei, le forme sode da donna giovane eppure adulta. Non potevo pensare, non dovevo. Lei, rumena di Costanza, parrucchiera col sogno di un salone tutto suo, nemmeno. Eravamo lì perché entrambi avevamo bisogno di qualcosa. Pur non gustando quel piacere che avevo fantasticato per strada, mi spinsi fino in fondo. E, nonostante mi costasse diversi turni lavorativi, ci ritornai. Londra ti mastica e ti sputa; tu stai al gioco, consumando. Quick, quick, come al ristorante, come in un qualsiasi McDonald's: fast food, fast life. Nelle distanze enormi della gigantesca capitale, i soldi e le ore volavano così. In mezzo ai topi e agli immigrati in cerca di fortuna, come un monito, a ricordare che questo mondo si divide in chi paga e chi viene pagato.
Dopo un mese mi decisi a chiamare. Fissai un appuntamento, come se si trattasse di una visita medica. Avevo voglia, una voglia tremenda, che quella città, che di continuo affitta e vende qualsiasi cosa, aveva reso irrefrenabile. Le mani già callose e tagliuzzate qua e là mi chiedevano uno sfogo che non si concludesse in loro e il desiderio s'era stufato di penare in solitudine. Per questo lasciai che le dita digitassero quel numero. Presi la metro e scesi a Bayswater, in zona 1. L'indirizzo che mi era stato mandato per sms corrispondeva a degli appartamenti signorili. Ero arrivato. Suonai al citofono e una voce bisbigliò di salire le scale sulla destra, fino al terzo piano. Con timore e curiosità, divorai i gradini. Il rumore dei tacchi alti mi singhiozzava nel petto.
La porta si aprì il tanto che bastava a farmi entrare e si richiuse immediatamente. Avevo solo mezzora; era bellissima. Un completo intimo esaltava la sua femminilità, il seno, i glutei, le forme sode da donna giovane eppure adulta. Non potevo pensare, non dovevo. Lei, rumena di Costanza, parrucchiera col sogno di un salone tutto suo, nemmeno. Eravamo lì perché entrambi avevamo bisogno di qualcosa. Pur non gustando quel piacere che avevo fantasticato per strada, mi spinsi fino in fondo. E, nonostante mi costasse diversi turni lavorativi, ci ritornai. Londra ti mastica e ti sputa; tu stai al gioco, consumando. Quick, quick, come al ristorante, come in un qualsiasi McDonald's: fast food, fast life. Nelle distanze enormi della gigantesca capitale, i soldi e le ore volavano così. In mezzo ai topi e agli immigrati in cerca di fortuna, come un monito, a ricordare che questo mondo si divide in chi paga e chi viene pagato.
Vincenzo Perez
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