martedì 21 aprile 2015

[Itinerari Culturali] Oltre la fotografia #2: Brancati, ritrarsi per non dimenticarsi


Sono infiniti i modi in cui la fotografia può venire in contatto con le arti. È un modo di comunicare estremamente eclettico, spesso la si vede unirsi alla parola scritta come supporto didascalico, ma può entrare nelle righe di un testo in maniera più profonda nascondendosi nei meandri più reconditi di ogni storia raccontata.
È il secondo modo quello in cui Vitaliano Brancati lasciava che il mezzo fotografico si diffondesse nei suoi romanzi. Lo scrittore siciliano visse nel primo cinquantennio del Novecento, quando la fotografia cominciava a diffondersi sempre più in tutti gli strati della società. Lentamente, un passo per volta, la fotografia, come tutte le nuove tecnologie, entrava a far parte della quotidianità. L'interesse di Brancati a riguardo va quindi inteso in un'ottica più ampia, il suo sguardo è rivolto a un mondo inedito, quello dei nuovi mezzi di comunicazione. Le scene chiave delle trame brancatiane sono spesso messe evidenza dalla presenza del telefono, della radio o, appunto, della fotografia. Quel che ne viene fuori è un ritratto nel modus vivendi della società quando la novità cominciava a integrarsi nei piccoli gesti di ogni giorno o di un giorno eccezionale.

Chiaro, sì, Natàca era una funesta città. Ma tre cose di Natàca non abbastanza chiare.
[…] Una seconda era il modo con cui trattavano la vita Maria Careni e il marito; che la domenica andavano per i viali del giardino pubblico seguiti da una piccola carrozza dal cui fondo un minuscolo essere rispondeva minimamente allo sguardo che la sorellina, trottando presso la vetturetta, gli mandava di continuo, e fissava invece, con una strana attenzione, il
piccolo fratello che distendeva il braccio, aprendo e chiudendo malamente il pugno in segno di addio, di sui polsi di un'altissima mora. Che significava quella loro mania dei ritratti, per cui di ogni domenica si conservano centinaia di copie, e le facce e le cose (nelle quali i tre amici avevan letto con disgusto che, sotto quel tempo che no volevano mai passare, la vita fuggiva via in un baleno) erano amorosamente e minutamente ripetute su carta doppia e su carta patinata: e del fatto che il minuscolo Lello aveva sgangherato la bocca per chiedere un palloncino, rimanevano i segni negli album, sulle pareti, sui tavoli e al capezzale del letto? E in che consisteva la bellezza di quel passatempo per cui padre e madre, seduti in un sedile, facevano avvicinare di tra le foglie il volto della bambina, portata in braccio dalla mora, e lo spingevano a sorridere, prima da lontano, poi da vicino, poi lo spaventavano, ma subito tornava a sorridere?
Poco chiaro, poco chiaro! E forse stupido!1

Nasce così l'ossessione per la fotografia di due dei numerosi personaggi degli Anni perduti, scritto da un Brancati ancora giovanissimo ma non alle prime armi. Il contesto è quello di una città siciliana, Catania, celata sotto il nome di Natàca caratterizzata da uno scorrere del tempo inesorabilmente lento. Natàca è un inferno di miele da cui non si può, e in fondo non si vuole, fuggire. I suoi abitanti non vivono la vita, da essa vengono vissuti. Sembra che a Natàca non ci sia nulla da fare oltre che aspettare che il tempo passi. Così Maria Careni con il marito e i figlioletti passeggiano ogni domenica mattina nei viali alberati della città per fotografare e fotografarsi in centinaia di ritratti tutti un po' troppo uguali. Quel mettersi in posa sorridenti così iterativo a Natàca nessuno lo capiva. Quello stampare infinite copie di una stessa immagine, quel riempire la casa di sorrisi provocati, di ricordi di una routine domenicale, proprio nessuno lo comprendeva.
Si è detto che a Natàca il tempo scorreva lento e inesorabile, ma – a prescindere dal suo ritmo – il tempo scorreva. Parlava Bazin del «complesso della mummia», sostanzialmente alla base delle arti è il bisogno dell'uomo di difendersi proprio dallo scorrere del tempo. Ma se la pittura e la scultura consegnano l'uomo all'eternità, la fotografia «imbalsama il tempo, lo sottrae solamente dalla sua corruzione»2. Fotografare per sconfiggere la morte grazie a una riproduzione meccanica oggettiva che offre una registrazione integrale e prossima alla realtà fenomenica. Fotografare è mummificarsi, è salvare l'apparenza, fermare un attimo in un immagine e con esso il tempo stesso. Agli abitanti di Natàca proprio non era chiaro, eppure Brancati l'aveva compreso e descrivendo le domeniche dei Careni aveva inconsapevolmente ritratto le passeggiate dei nuovi genitori del Duemila.

Serena Mauriello

1Vitaliano Brancati, Gli anni perduti, Milano, Bompiani, 1963, p. 158.
2Fabiola Naldi, I'll be your mirror, Travestimenti fotografici, Roma, Castelvecchi, 2003, p. 92.

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