Sono infiniti i modi in cui la
fotografia può venire in contatto con le arti. È un modo di
comunicare estremamente eclettico, spesso la si vede unirsi alla
parola scritta come supporto didascalico, ma può entrare nelle righe
di un testo in maniera più profonda nascondendosi nei meandri più
reconditi di ogni storia raccontata.
È il secondo modo quello in cui
Vitaliano Brancati lasciava che il mezzo fotografico si diffondesse
nei suoi romanzi. Lo scrittore siciliano visse nel primo
cinquantennio del Novecento, quando la fotografia cominciava a
diffondersi sempre più in tutti gli strati della società.
Lentamente, un passo per volta, la fotografia, come tutte le nuove
tecnologie, entrava a far parte della quotidianità. L'interesse di
Brancati a riguardo va quindi inteso in un'ottica più ampia, il suo
sguardo è rivolto a un mondo inedito, quello dei nuovi mezzi di
comunicazione. Le scene chiave delle trame brancatiane sono spesso
messe evidenza dalla presenza del telefono, della radio o, appunto,
della fotografia. Quel che ne viene fuori è un ritratto nel modus
vivendi della società quando la
novità cominciava a integrarsi nei piccoli gesti di ogni giorno o di
un giorno eccezionale.
Chiaro,
sì, Natàca era una funesta città. Ma tre cose di Natàca non
abbastanza chiare.
[…]
Una seconda era il modo con cui trattavano la vita Maria Careni e il
marito; che la domenica andavano per i viali del giardino pubblico
seguiti da una piccola carrozza dal cui fondo un minuscolo essere
rispondeva minimamente allo sguardo che la sorellina, trottando
presso la vetturetta, gli mandava di continuo, e fissava invece, con
una strana attenzione, il
piccolo fratello che distendeva il braccio,
aprendo e chiudendo malamente il pugno in segno di addio, di sui
polsi di un'altissima mora. Che significava quella loro mania dei
ritratti, per cui di ogni domenica si conservano centinaia di copie,
e le facce e le cose (nelle quali i tre amici avevan letto con
disgusto che, sotto quel tempo che no volevano mai passare, la vita
fuggiva via in un baleno) erano amorosamente e minutamente ripetute
su carta doppia e su carta patinata: e del fatto che il minuscolo
Lello aveva sgangherato la bocca per chiedere un palloncino,
rimanevano i segni negli album, sulle pareti, sui tavoli e al
capezzale del letto? E in che consisteva la bellezza di quel
passatempo per cui padre e madre, seduti in un sedile, facevano
avvicinare di tra le foglie il volto della bambina, portata in
braccio dalla mora, e lo spingevano a sorridere, prima da lontano,
poi da vicino, poi lo spaventavano, ma subito tornava a sorridere?
Poco
chiaro, poco chiaro! E forse stupido!1
Nasce
così l'ossessione per la fotografia di due dei numerosi personaggi
degli Anni perduti,
scritto da un Brancati ancora giovanissimo ma non alle prime armi. Il
contesto è quello di una città siciliana, Catania, celata sotto il
nome di Natàca caratterizzata da uno scorrere del tempo
inesorabilmente lento. Natàca è un inferno di miele da cui non si
può, e in fondo non si vuole, fuggire. I suoi abitanti non vivono la
vita, da essa vengono vissuti. Sembra che a Natàca non ci sia nulla
da fare oltre che aspettare che il tempo passi. Così Maria Careni
con il marito e i figlioletti passeggiano ogni domenica mattina nei
viali alberati della città per fotografare e fotografarsi in
centinaia di ritratti tutti un po' troppo uguali. Quel mettersi in
posa sorridenti così iterativo a Natàca nessuno lo capiva. Quello
stampare infinite copie di una stessa immagine, quel riempire la casa
di sorrisi provocati, di ricordi di una routine domenicale, proprio
nessuno lo comprendeva.
Si
è detto che a Natàca il tempo scorreva lento e inesorabile, ma –
a prescindere dal suo ritmo – il tempo scorreva. Parlava Bazin del
«complesso della mummia», sostanzialmente alla base delle arti è
il bisogno dell'uomo di difendersi proprio dallo scorrere del tempo.
Ma se la pittura e la scultura consegnano l'uomo all'eternità, la
fotografia «imbalsama il tempo, lo sottrae solamente dalla sua
corruzione»2.
Fotografare per sconfiggere la morte grazie a una riproduzione
meccanica oggettiva che offre una registrazione integrale e prossima
alla realtà fenomenica. Fotografare è mummificarsi, è salvare
l'apparenza, fermare un attimo in un immagine e con esso il tempo
stesso. Agli abitanti di Natàca proprio non era chiaro, eppure
Brancati l'aveva compreso e descrivendo le domeniche dei Careni aveva
inconsapevolmente ritratto le passeggiate dei nuovi genitori del
Duemila.
Serena Mauriello
1Vitaliano
Brancati, Gli anni perduti,
Milano, Bompiani, 1963, p. 158.
2Fabiola
Naldi, I'll be your mirror, Travestimenti fotografici,
Roma, Castelvecchi, 2003, p. 92.
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