Un viaggio alle origini della letteratura italiana: leggere il Corbaccio di Giovanni Boccaccio per scoprire, con la giusta dose d'ironia, che gli stereotipi maschili sulle donne sono sempre gli stessi fin da dal Medioevo.
Usciti dal liceo, anche per gli
studenti più capre, la certezza sulla letteratura è solo una: a Dante sta la Commedia come a Petrarca il Canzoniere
e a Boccaccio il Decameron.
Al più, se proprio si va nel profondo della questione, si possono
aggiungere la Vita Nova (sempre
con quell'incertezza: ma si dice nova o
nuova?, lasciamola
irrisolta, potrei assillarvi per pagine intere) per l'Alighieri e il
Secretum (giusto di
nome, roba in latino, per carità!) per il poeta aretino. Ma il
Boccaccio... Possibile che non abbia fatto proprio nient'altro?
Io
sono qui per dirvi il contrario.
Senza darvi l'elenco di tutti i titoli boccacciani, vi dico che dal 1331 al 1342, la terza corona ha all'attivo sulla propria scrivania ben otto opere scritte tutte contemporaneamente. Son testi dallo sperimentalismo avveniristico in cui quel gusto per il narrare è già tradito dalle lunghezze fuori misura di ogni opera. Boccaccio tenta ogni stile, ogni genere, ogni forma. È il primo ad avere il coraggio di usare le terzine incatenate, il metro della Commedia ideato dallo stesso Dante e per questo avvolto da un'aura di santificazione letteraria; canonizza e regolarizza l'ottava, che non ancora nelle mani dell'Ariosto ha la veste del metro dei giullari; scrive un'elegia in prosa in cui a parlare è una donna che soffre per un amante duro e disinteressato (badate bene sono altri tempi, non era nulla di scontato in periodo in cui le poesie d'amore le scrivevano solo gli uomini); tenta la mitologia in prosa volgare e anche un poema epico sulle orme di Virgilio e Stazio; non si lascia scappare l'occasione per scrivere un prosimetro... Ce n'è per ogni gusto. Insomma, prima di arrivare all'opera magna Boccaccio aveva già navigato molto con la narrazione, e solo proseguendo questa strada sarebbe potuto arrivare al Decameron, spesso definito enciclopedia del narrabile1. Non bisogna neanche credere che, dopo esser riuscito a metter su carta l'intero mondo, Boccaccio si sia voluto fermare, perché dopo le cento novelle c'è dell'altro ed è proprio lì che voglio arrivare.
Senza darvi l'elenco di tutti i titoli boccacciani, vi dico che dal 1331 al 1342, la terza corona ha all'attivo sulla propria scrivania ben otto opere scritte tutte contemporaneamente. Son testi dallo sperimentalismo avveniristico in cui quel gusto per il narrare è già tradito dalle lunghezze fuori misura di ogni opera. Boccaccio tenta ogni stile, ogni genere, ogni forma. È il primo ad avere il coraggio di usare le terzine incatenate, il metro della Commedia ideato dallo stesso Dante e per questo avvolto da un'aura di santificazione letteraria; canonizza e regolarizza l'ottava, che non ancora nelle mani dell'Ariosto ha la veste del metro dei giullari; scrive un'elegia in prosa in cui a parlare è una donna che soffre per un amante duro e disinteressato (badate bene sono altri tempi, non era nulla di scontato in periodo in cui le poesie d'amore le scrivevano solo gli uomini); tenta la mitologia in prosa volgare e anche un poema epico sulle orme di Virgilio e Stazio; non si lascia scappare l'occasione per scrivere un prosimetro... Ce n'è per ogni gusto. Insomma, prima di arrivare all'opera magna Boccaccio aveva già navigato molto con la narrazione, e solo proseguendo questa strada sarebbe potuto arrivare al Decameron, spesso definito enciclopedia del narrabile1. Non bisogna neanche credere che, dopo esser riuscito a metter su carta l'intero mondo, Boccaccio si sia voluto fermare, perché dopo le cento novelle c'è dell'altro ed è proprio lì che voglio arrivare.
Per
leggere il Corbaccio,
se si è donne, bisogna imporsi di non essere permalose e prepararsi
a fare dell'autoironia. Se si è uomini, occorre prendere una birra,
stapparla e sedersi comodi in poltrona possibilmente con
le gambe ben stese sul tavolino del salotto. Se abbiamo definito poco
sopra il Decameron come
l'enciclopedia del narrabile, il Corbaccio può
essere inteso come l'enciclopedia dei luoghi comuni sulle donne. Dal
linguaggio iperbolico e grottesco che solo dalla penna di un grande
sperimentatore come Boccaccio poteva nascere, il Corbaccio
è un trattatello ironico in cui i grandi topoi
della tradizione misogina medievale vengono sfruttati e
narrativizzati con esiti di una comicità dilaniante. La storia,
brevemente, è questa: il protagonista senza nome si innamora
follemente di una vedova astuta e megera che lo fa soffrire
follemente per amore, invocando la morte con il cuore straziato, cade
in un lungo sonno e intraprende un viaggio in un aldilà (e qui la
parodia a Dante si fa gustosissima) in cui gli uomini che sono stati
sposati in vita vanno diretti in Paradiso perché hanno sofferto le
pene infernali in terra a opera delle loro mogli. Qui, il giovane
innamorato incontro un uomo con una veste purpurea che si dimostrerà
la sua guida. Il vecchio presto racconta di essere il marito defunto
dell'amata del protagonista e, ancora fervente d'odio per l'agonia
sofferta a causa di lei in vita, degrada la donna al giovane per far
si che la sua vendetta possa essere messa in atto. Il risulta è,
fatemelo ripetere per la decima volta, esilarante. Da un lato l'anima
di un vecchio geloso che non vorrebbe accanto alla moglie ancora in
carne e ossa nessun altro uomo, dall'altro proprio l'altro uomo. Vengono raccontati tutti i difetti della vedova che
assume caratteri mostruosi: dalla sua fissazione per gli abiti,
all'eccessiva vanità, alle ore passate allo specchio a coprirsi il
volto di strati e strati di trucco per superare i limiti imposti
dalla natura. Dal singolare si finisce, come sempre, per passare al
generale e l'invettiva finisce per essere rivolta a tutte le donne,
come quelle che vanno in spose a uomini vecchi e brutti pur di
saperli ricchi, o talune irose a tal punto da costringere gli uomini
a dover uscire di casa pur di trovare un attimo di serenità nelle
loro giornate. Donne, sempre così incoerenti e instabili, che
cambiano idea in un attimo e con la loro loquacità irrefrenabile e
saccente si riempiono la bocca di bugie pur di non ammettere di aver
torto. Quelle donne, che se proprio hanno torto e lo sanno, allora
piangono a comando per sembrare povere indifese2...
Insomma, la morale è solo una: i luoghi comuni son comuni non per definizione, ma perché nei secoli rimangono sempre gli stessi. Care donne, facciamocene una ragione.
Serena Mauriello
2Cfr.
Simonetta Mazzoni Peruzzi, Il medioevo francese nel Corbaccio,
Firenze, Le Lettere, 2001.
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