mercoledì 13 maggio 2015

[Itinerari Culturali] - Casi editoriali #1: Il Gattopardo e lo scrittore postumo


Ma chi è Tomasi di Lampedusa? […] È un principe che si identifica in ogni sua fibra nelle sorti della classe sociale alla quale la culla gli concede di appartenere. E che, nella decadenza progressiva e ineluttabile della vecchia aristocrazia, perderà tutto.1

Era il 1957 quando Filippo Tomasi Di Lampedusa moriva a Roma all'età di sessantun'anni. La sua morte non fece scalpore, non era uno scrittore, o meglio, lo era, ma nessuno ancora l'aveva riconosciuto come tale. I rifiuti ricevuti nella sua vita non gli avevano lasciato presagire il successo del suo Gattopardo arrivato alle stampe solo un anno dopo la sua morte.
La sua infanzia è tutta di quel mondo aristocratico, trascorre felice nel palazzo familiare a Palermo, l'adolescenza lo porta a viaggiare per l'Europa alimentando e soddisfacendo la sua curiosità. Alla morte del nonno il patrimonio familiare comincia a disperdersi. Un gioco di carte testamentarie scomparse, esistite o forse no. La decadenza economica e sociale dell'aristocrazia di cui la sua stessa famiglia è specchio lo porta in depressione. La lettura è fida amica fin dalla primissima infanzia, per sfuggire alla governante e allo sport, per sopportare gi studi obbligati di diritto, per vivere da solo e sfuggire da tutto il resto del mondo. Nel Gattopardo c'è tutto questo, c'è molto di più. C'è la storia di un principe e della sua famiglia nel cui stemma campeggia, appunto, un gattopardo, ma c'è anche la storia del passaggio dalla Sicilia del regime borbonico allo Stato unitario. Senza un percorso cronologico o spaziale, il romanzo corre da una data all'altra e da un luogo all'altro2, e l'ordine unificante sembra essere solo la volontà di narrare e narrarsi.
Se queste sono le premesse, è facile immaginare il successo di pubblico che riuscì ad ottenere in pochi mesi. Pubblicato nel novembre del '59, a luglio aveva già raggiunto le 70000 copie vendute e il Premio Strega. La critica in un attimo si era infervorata in un coacervo di discussioni. Il “caso Gattopardo“ inizia ben prima della sua apparizione. I no erano arrivati da Mondadori e da Einaudi.
Il 2 luglio 1957 Elio Vittorini risponde a quel dattiloscritto ricevuto negando il suo inserimento nella collana «I Gettoni» ormai satura. La stroncatura di Vittorini descrive Il Gattopardo come prolisso, discordante nel suo essere saggistico ma narrativo, squilibrato e, soprattutto, incapace di diventare il ritratto di un'epoca.
Il recupero del futuro caposaldo ella letteratura novecentesca sarà grazie a Giorgio Bassani, scrisse alla sorella di Tomasi di Lampeduda: «Dalla prima pagina mi sono accorto di fronte all'opera di un vero scrittore. Andando avanti mi sono persuaso che il vero scrittore era anche un vero poeta». Così arrivò alle stampe un'edizione particolare del Gattopardo, quella della prima redazione, ancora incompleta e e ricca di numerose variazioni lessicale e ortografiche rielaborata da Bassani stesso3; solo nel 1969 venne pubblicata un'edizione conforme al dattiloscritto ricevuto da Vittorini.
Così ha inizio il pandemonio della critica. Il primo a prendere la penna in mano è Carlo Bo definendo Il Gattopardo «un libro per molti versi più che notevole, un libro d'eccezione nel miglior senso della parola, tale da costituire non soltanto un caso ma da autorizzare una rivelazione, soprattutto se si tengono presenti le condizioni della nostra narrativa»4. E dopo i grandi elogi il romanzo si tentava di comprenderlo, non era chiaro quale fosse il genere in cui inserirlo (un romanzo storico o psicologico?), qualcuno – specie a sinistra – lo vedeva come un frutto fuori stagione, come prodotto di un'ideologia di destra.
A prescindere dalle interpretazioni che se ne sono date, ciò che conta è saperlo il primo best seller del dopoguerra. E da questa vicenda editoriale la morale per l'aspirante narratore è solo una: senza fretta, se il libro è valido, prima o poi lo scrittore verrà alla luce, e, se proprio non si riesce ad andare alle stampe, forse chissà... Sei proprio tu il futuro scrittore postumo?


Serena Mauriello


1Riccardo Tanturri, Il Gattopardo innamorato, Catanzaro, Rebettino, 2001, p. 9.
2Cfr. Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana. Il Novecento e il nuovo millennio, Perugia, Mondadori Università, 2013.
3Cfr. David Gilmour, L'ultimo Gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Milano, Feltrinelli, 1989.
4Carlo Bo, La zampata del Gattopardo, «La Stampa», 26 novembre 1958.

martedì 12 maggio 2015

[Tutùm Narrativa #4] - "Il Gioco" di Livio Dorascenzi

«Quella là! Quella là!» grida Sofia, indicando il treno in corsa sopra di loro. 
Giulio si sporge in avanti sul volante. La vede per una
frazione di secondo incorniciata nel finestrino dello scompartimento: una ragazza giovane, capelli scuri, sguardo disperato rivolto verso il cielo. 
«Questa è buona» esclama. «Comincio io!» 
«È una marziana. I suoi genitori l’hanno lasciata sulla terra ancora bambina con l’obiettivo di distruggere l’umanità. Lei, però, viene adottata da un vecchietto che la educa alla morale cristiana, trasformandola in una brava ragazza. 
«Proprio ora, dal treno, ha visto la nave spaziale dei suoi nel cielo. Erano tornati per lei, ma si sono accorti che la missione è fallita e hanno fatto dietrofront lasciandola per sempre qui.» 
Si gira verso Sofia con uno sguardo di trionfo, mentre sul ponte sopra di loro sparisce l’ultimo vagone del convoglio.
Sofia ci pensa su. «Aspetta un attimo, questa storia l’ho già sentita..» 
«Impossibile cara, tutta farina del mio sacco. Direi che vale almeno dieci punti!» 

La ragazza apre gli occhi. Fuori il cielo grigio scorre veloce sulla città: è ancora viva. Con un rantolo di disperazione in gola si aggrappa al manico del finestrino del treno e graffia il vetro con le unghie in un raptus d’isteria. 
Lui grugnisce e suda dietro di lei. La sbatte con violenza, dentro e fuori la sua fica. Nient’altro che una ferita aperta. 
Un conato di vomito le invade la bocca. Graffia ancora il vetro con furia cieca fino a spaccarsi le unghie. 
Lui le blocca la mano girandole il braccio dietro la schiena e riprende a sbatterla più forte di prima. Un olezzo di sangue, sudore e uova marce, si espande nella piccola cabina. 
Tra le lacrime, rialza gli occhi verso il cielo. 
Il treno corre via indifferente e lei prega ancora di morire.

«Spacegirl! Questa è la storia di Spacegirl brutto barone!» urla Sofia dentro la macchina. «Altro che farina del tuo sacco!» 
Giulio scoppia a ridere. «Cosa?! Secondo te io guardo quei film stracciapalle?». 
Sofia si tappa le orecchie e prende a cantare: «Giulio è un barone, Giulio è un barone, Giulio è un barone…» 
Lui le tappa il naso e attacca a sua volta: «Sofia non respira, Sofia non respira, Sofia non respira…» 
Sofia, lottando, si libera dalla presa. È spettinata e rossa in viso. Un filo di muco le penzola dal naso. 
Scoppiano a ridere insieme. 

L’uomo le dà un ultimo colpo di reni gemendo di piacere, poi le schiaccia la faccia contro il finestrino e con uno strattone tira fuori il suo cazzo coperto di sangue e sperma. 
Lei si affloscia a terra in una posizione innaturale come se le avesse sfilato via l’intera spina dorsale. 
La osserva per qualche secondo, poi si riallaccia i pantaloni, s’infila una cicca in bocca ed esce dal vagone lasciandola sola.  
La ragazza riapre gli occhi. Il boato del treno in corsa divora i suoi singhiozzi. 

 Il semaforo è verde da un pezzo e un coro di clacson si leva dietro di loro. La città è stanca, il cielo grigio e Sofia meravigliosa. 
Giulio le dà un bacio leggero. Poi, col cuore a mille, ingrana la prima e parte. 
 La vita non può essere più bella.



Livio Dorascenzi


venerdì 8 maggio 2015

[TutùmTeatro] - A.L.I.C.E., tragicommedia metafisica in due atti

Alice all'apparenza è una ragazzina abituata ad arrangiarsi con quello che trova, che vive in un vicolo buio e lurido, popolato da strane creature, dove piovono sacchi della spazzatura dalle finestre. In realtà dentro di lei vive un'identità agli estremi: da un lato è tentata dalla Megera, indovina e messaggera della voce divina che la eleva ad uno scopo superiore. Dall'altra parte è attratta dal Dottore, il terribile aguzzino e la valvola dei desideri repressi di Alice. Orribilmente scissa tra istinto e razionalità, il suo destino e quello di tutti noi potrebbe cambiare quando un Nero Coniglio nazista le mostrerà una terza e sconosciuta via. 
Sarà l'inizio di un percorso verso l'evoluzione definitiva o la fine del mondo così come lo conosciamo? 
Avvertenze: lo spettacolo contiene personaggi grotteschi e/o assolutamente realistici. Può provocare fragorose risate, disgusto, eccitazione, irritazione delle cornee e senso di fame e spossatezza. Tenere fuori dalla portata dei bambini. Se accusate altri sintomi potete prendervela con il regista. 


La vita teatrale Romana è un meraviglioso pot-pourri di realtà che sarebbe troppo riduttivo definire in categorie: amatoriale, professionale, sperimentale, classico, d’avanguardia. Sicuramente A.L.I.C.E. non risponde a nessuna di queste. 
Potremmo definire questo spettacolo urbano, azzardato, megalomane, estremo, semplice e assurdo. Ma non potremmo dirlo in senso teatrale. 
 Pamela, la regista, costruisce tramite le immagini. Si lascia ispirare, trascinare da una sponda all’altra. Non si pone limiti. Se è vero che in teatro vince quel che si palesa nascondendosi vale la pena vederlo anche solo per trovarci un senso. Lo spettacolo oscilla di continuo e permette infiniti piani di lettura, infinite possibili reazioni. 
Pamela comincia studiando come attrice, ma è attratta
dal meccanismo della messa in scena. Le piace Visconti e adora il Gattopardo. Studia cinema al DAMS di Roma Tre e poi al corso di regia del “La Casa dello Spettacolo”. Vuole fare uno spettacolo diverso, nuovo, fuori dagli schemi. Esclude i classici e le strade a senso unico, si fa ispirare da Ridley, Palmetshofer, i Pink Floyd e la città. All’inizio il protagonista sarebbe dovuto essere Peter Pan, ma, mano mano che il progetto andava delineandosi, il personaggio di Alice si è imposto impetuoso e calzante. L’obiettivo non era creare un bello spettacolo di plastica con attori impeccabili, ma rappresentare anche ciò che è brutto, distorto e vero. E’ una lunga interruzione dove le suggestioni si accavallano come i pensieri liberi e inconsci. Il resto è esperienza teatrale self-made: costumi, scenografie, maschere e accessori, tutto provato nel centro sociale “Macchia Rossa” di Magliana. La scrittura di David Emanueli mette in moto la macchina ed i personaggi della fiaba si de-formano. Un salto nel vuoto in territori teatrali ed economici, lo spettacolo è coraggioso: originale in ogni sua parte, A.L.I.C.E. può essere pensato, a detta della regista, come un “classico moderno”.

Dal 8 al 10 Maggio 
Teatro L’Aura 


Interpreti: 
Alice - Rebecca Chierici 
Larry - Davide di Meglio 
Dottore/Re - Mattia Paradiso 
Megera/Gatto - Martina Benedetti 
Nero Coniglio - Federico Mastroianni 
Infermiera/Regina - Silvia Del Prete 
Brucaliffo - Gabriele Ottaviani 
Cappellaio - Paolo Motta 
Cannibali 
Studenti 
Cani 

Regia di Pamela Parafioriti 
Testo di David Emanueli
Make up Artist Jenny Tomasello 
Light designer Enrico Marcacci 
Musiche Originali di Paolo Motta 
Grafica di Massimo Lanzi


Dafne Rubini


giovedì 7 maggio 2015

Cinquantacinque, l'età della rottamazione generale #5

Ancora 5 poesie di 55 cinque (ed è anche la quinta puntata), ed ancora all'insegna del politicamente scorretto. La prima poesia sarebbe un po' critica, se non avessimo immortalato fotograficamente lo sfogo a pennarello della corteggiatrice, o ex-fidanzata, di Giorgio ... che ha tutta la mia solidarietà





21 La ragazza di Giorgio

Descrisse sulle pietre del castello 
l'epilogo funesto del suo Giorgio.
D'aggiornamenti popolò l'incrocio, 
ma lui riprese pene e pennarello.

22 Sui tacchi 

Sui tacchi far la fica non è mica
l'intrepida fatica che si crede. 
E' l'alcool poi stasera alla vescica 
che rende vacillante la mia fede.

23 E' uno sporco lavoro

Schivando le emorroidi latenti, 
nel penetrarti il culo m'impegnai ...
... l'impresa non è facile, lo sai, 
però serve qualcuno che la tenti!

24 La giusta misura

Comprendo che rimanga qualche remora 
sulla misura giusta del concedere. 
Un giorno da leone può succedere, 
tu dammi cento giorni messa a pecora.

25 Generi di conforto

L'ho vista ch'era scritta a pennarello: 
"Banane, poi salame e cetrioli". 
Magari se ne facciano sott'oli, 
che quando c'è penuria non è bello.




Gianfranco Domizi

Fotografie di Marzia Schenetti

[Gianfranco , nato a Roma nel 1959, ed attualmente esule poco paziente nella città di Bologna (essere marxista nella città del PD offre motivi di sofferenza quotidiana), è il tipico dilettante: studente fallito di una prestigiosa scuola di cinema, mediocre compositore ed arrangiatore musicale, poeta largamente opinabile. Adora scrivere di se stesso in prima persona nelle poesie, ma ancor più in terza persona,           in queste futili autopresentazioni.

Marzia , scrittrice, pittrice, fotografa, cantante, muratore ed imbianchina della provincia di Reggio Emilia, è autrice de: “Il Gentiluomo, una storia di stalking” (romanzo-testimonianza, Il Ciliegio, 2011); Parole Desti-Nate” (raccolta di poesie, Il Ciliegio, 2012); “L'Edile (raccolta di poesie, autoprodotta, 2014); “Evil, l'uomo del male” (prequel de Il Gentiluomo”, Il Ciliegio, 2013); da quest'ultimo libro, abbiamo tratto insieme i recital di parole e canzoni:“Evil” (2014), e poi “E … una storia di stalking” (fine 2014). ]

martedì 5 maggio 2015

[La Settimana politica in versi] - Rima assurda

Rima assurda ... è quella proposta in questa poesia fra "ambaradan" (termine passato nel gergo popolare, e recentemente ripreso anche da Aldo, Giovanni e Giacomo, per indicare "baraonda" ... ma il riferimento storico è un assai meno divertente massacro bellico di circa 80 anni fa: la battaglia dell'Amba Aradam) e "Zidane" (ex-calciatore tecnicamente notevole, ma noto oramai soprattutto per un gesto di "follia calcistica": quello di aver dato, in risposta ad una provocazione, una testata nel petto del difensore italiano Marco Materezzi). Tuttavia, per quanto questa rima sia assurda, lo è sicuramente di meno dei lavori parlamentari di questa settimana sulla nuova legge elettorale ("Italicum")


Seguendo un qualche refolo di vento,
propugnano opinioni da fast food,
si stringono schifandosi in un club
che si vorrebbe fosse un Parlamento.

E'la Madia divinità di monache?
Chi l'ha plastificata Santanché?
Il resto è sempre noia, al punto che
ci tediano ormai troppo troppe cronache.

Però nel mezzo dell'ambaradan,
librandosi gli insulti alla rinfusa,
qualcuno grida a Laura "collusa",
epiteto ben detto, ma scontato.

Però l'abbiamo in molti riascoltato,
in genere la verità non resta muta.
Eh sì, l'appellativo era "cornuta",
un'invenzione degna di Zidane.

Gianfranco Domizi

sabato 2 maggio 2015

[Itinerari Culturali] Oltre la fotografia #3: Capuana, gli spiriti e i "selfie"

Luigi Capuana conversa con Federico De Roberto, forse autoritratto

Se vi dicessi Capuana voi mi rispondereste letteratura, io ne sono sicura. Molti non sanno che nel 1880, dopo l'esperienza fiorentina con lo studio Alinari dello scrittore di Mineo, venne fondato il «Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal professor Luigi Capuana»1. Non solo amante della fotografia, ma addirittura alla testa di un atelier: come si è arrivati fin a qui?
Quando Zolà aveva lanciato il naturalismo il ruolo della letteratura era radicalmente mutato. Riducendo un pensiero ampio ai minimi termini, sostanzialmente si può affermare che il naturalismo – al pari del verismo italiano – mirava a rappresentare in maniera diretta e meticolosa a realtà. Se questa è la premessa dell'approccio alla narrazione della schiera di scrittori in questione, è ben chiaro come il rapporto con la fotografia poteva divenire più che complesso. La fotografia poteva essere grande nemica o fortunosa alleata in base all'occhio con cui la si guardava.
La capacità di rappresentazione oggettiva del mondo propria del mezzo fotografico aveva richiamato l'attenzione prima di Capuana, poi, grazie alla sua influenza, di De Roberto – definito dal primo semplice «apprendista»2 del campo – e di Verga. Il meno convinto di tutti era l'autore dei Malavoglia che così rimproverava l'amico «Costà non farai nulla non solo, ma ti ritroverai impotente a nulla fare, almeno di arte attiva e proficua»3.
Capuana con la fotografia sperimentava e giocava, senza prendersi alle volte troppo sul serio. Del suo atelier De Roberto parlava come dello studio di uno scienziato pazzo, pieno di strumenti e congegni da lui stesso inventati per seguire tutti gli sviluppi del processo fotografico dalla ripresa, allo sviluppo, alla stampa4. Ciò che attirava lo scrittore era la possibilità di ritrarre il paranormale tramite la fotografia. Sì, Capuana voleva fotografare gli spiriti proprio come quei pazzi di Mistero. Nel 1864 ritrasse una ragazzina in trance medianica, a una ventina di anni dopo risalgono i tentativi di fotografare ectoplasmi. Come afferma Emiliano Morreale

siamo dunque ben lontani dall'intenzione di documentare la realtà secondo un approccio verista; al contrario, Capuana praticava un comportamento tipico della sua terra: la vicinanza tra la foto e la morte (e i morti) è rimasta – fino a pochi decenni fa – un ingrediente fondamentale negli usi sociali della fotografia. Spesso i ritratti ufficiali venivano eseguiti post mortem, sulla salma composta: naturalmente, con ritocco finale agli occhi. Lo stesso Capuana si fece uno scherzoso autoritratto da morto, e accettò di ritrarre una bambina defunta che i parenti, pur di conservare il ricordo, fecero riesumare per l'occasione.5

L'uso della fotografia non va inteso in maniera funzionale ai propri progetti creativi e letterari, uno scatto non diverrà mai supplemento di un'opera di Capuana; piuttosto l'obiettivo diviene una lente con cui osservare il mondo non visibile ad occhio nudo secondo una curiosità tradizionalmente tutta siciliana. La fotografia è chiaramente uno strumento ludico con cui potersi dilettare da soli o in compagnia. Risale al 16 novembre 1987 una lettera in cui Verga scrive a Capuana «Verrai il 20? Non dimenticare di portare stavolta la commedia e anche la macchina fotografica. Coll'una o coll'altra passeremo qualche ora buona, insieme a Federico e a Ciccio Ferlito»6, Federico è chiaramente Federico De Roberto. 
Cosa facevano insieme tre grandi classici della letteratura italiana in una placida giornata autunnale? Capuana metteva a disposizione la macchina fotografica, Verga scattava. Si stava insieme, ci si fotografava. Verga di autoscatti ne ha lasciati molti, con gli amici e con la famiglia. Insomma, forse farsi un “selfie“ non è poi così illecito, ma dire la parola “selfie“... Beh, quello sì.

Serena Mauriello


1Italo Zannier, Storia dlla fotografia italiana, Bari, Laterza, 1986, p. 97.
2Ibidem.
3Carteggio Verga-Capuana (Dicembre 1870-Giugno 1921), a cura di Gino Raya, Milano, edizioni dell'ateneo, 1984, p.136.
4Cfr. Federico De Roberto, Luigi Capuana nei cimeli fotografici, «Noi e il mondo», 1 gennaio 1916, Roma.
5Emiliano Morreale, Tre scrittori del vero: Verga, Capuana, De Roberto, in Atlante della letteratura italiana, a cura di Sergio Luzzato e Gabriele Pedullà, Torino, Einaudi, 2012, pp. 329-333, p.329.
6Carteggio Verga-Capuana, cit., p. 185.

venerdì 1 maggio 2015

[Il Punto su...] - #NoExpo. Sale la grande opera, crollano le basi

È il primo maggio, la festa dei lavoratori. Centinaia di migliaia di persone stanno per uscire di casa, mettersi in macchina e andare a festeggiare da qualche parte per l’Italia.
Alcune di loro, assieme a tanta altra gente che viene da tutto il mondo, si trovano di fronte alle porte di un grande edificio tutto bianco che è stato messo su in fretta e furia durante gli ultimi mesi: l’Expo2015 di Milano.

Tre giorni fa, il Fatto Quotidiano pubblicava alcune foto – diffuse da M5S Lombardia – mostranti una serie di operai che lavoravano in tutta fretta a ridosso di alcune pareti. Lo spazio in cui si trovavano era vuoto, disordinato, anche piuttosto sporco. Ed era uno dei locali di Expo 2015, l’esposizione universale che, neanche a dirvelo, sta aprendo oggi le sue porte ai cittadini di tutto il pianeta.  Quel pianeta che dice di voler nutrire affianco a “maestri” dell’alimentazione come Mc Donald’s, Monsanto, Nestlè, Coca Cola, Eataly e molti altri.
Noi di Tutùm avevamo già parlato dell’immaginario “patinato, contraddittorio e assolutamente volto al profitto” che molti attivisti leggono tra le righe del disegno di questa grande esposizione. La “Rete No Expo”, insieme di 20 realtà che si muovono sul territorio di Milano dal 2007, aveva ben spiegato i motivi per cui effettivamente ci sarebbe da porsi delle domande rispetto allo slogan che accompagna il colorato titolo di questa fiera: “Nutrire il pianeta”.
Ci eravamo chiesti in che modo un evento precarizzante, privatizzante e delegalizzante come Expo possa prendersi la briga di insegnarci il modo in cui si nutre il pianeta. La domanda era rimasta sospesa alla fine di un lungo articolo, sotto una tela di discorsi che avevamo districato con l’aiuto un attivista della Rete. 

Il giorno del verdetto, quello in cui i visitatori osserveranno criticamente Expo, abbiamo deciso di prendere la questione dal punto di vista più concreto possibile. Di lasciare che le evidenze fino ad oggi svelate da Expo parlino da sé. E anche un po', con Luca, portavoce di #NoExpo.

Materialità:
La parte più caratteristica e importante di un Expo è la sua fisicità. Nel caso specifico, questa fisicità si è  rivelata controversa soprattutto dal punto di vista sociale e politico. Ce lo dimostra la cronaca di illegalità che ha scritto la storia di Expo fin dal 2007, ma ce lo dimostrano anche alcuni dati che circolavano in questi giorni: secondo l’Osservatorio Open Expo, lo stato dei lavori a due giorni dall’apertura era ancora al 21%. Dato preoccupante, se si pensa che la data del primo maggio non può esser evasa. Ma anche interessante, perché viene da chiedersi cosa ne sarà di questa incompletezza di fronte al verdetto dei visitatori.
“L’inaugurazione, probabilmente, sarà simile a un grande ‘cerone’ di copertura – ha ipotizzato Luca – ci si troverà di fronte a un confezionamento che già dal due maggio comincerà a mostrare i primi punti deboli”. Confezionamento fatto di tante sfaccettature, e che che probabilmente ha iniziato a prendere la sua forma  qualche mese fa. Secondo Luca, nelle ultime settimane “più Expo si avvicinava e la figuraccia incombeva, più aumentava la tensione sul territorio milanese”. Tensione che – come ben si sa – è spesso alimentata da una stampa che riporta informazioni incomplete, non approfondite, quasi votate alla voce unica della comunicazione istituzionale. 

Antagonismo:
Non serve tornare troppo indietro per trovarne un esempio: basta leggere le pagine di cronaca dei cortei che si sono svolti ieri a Milano.
Quando si parla di antagonismo, l’immagine che più frequentemente accompagna la sua narrazione è legata all’illegalità: black block, arresti, manganellate, offensive, fumogeni, tensione. 
Nessuno osa mettere piede oltre la linea di questa dimensione unica e stereotipizzante. E nessuno, oltre a decontestualizzare i singoli fatti, ha mai provato a fare il punto sulle ragioni che potrebbero celarsi dietro quello che si vuol far passare per sterile “antagonismo”.
Oltre al paio di “black block” un po’ sensazionalizzati da alcune testate, hanno marciato pacificamente molti di coloro che non saranno giovati da questo grande traffico di soldi e persone, come i lavoratori scioperanti coinvolti dal Piano di lavoro Extra per Expo, firmato dall’azienda e dalla maggioranza delle sigle sindacali col fine di intensificare i turni senza però compensare le mansioni notturne o festive: “Una macchina comunale spremuta in anni di tagli e sacrifici – spiega Luca commentando lo sciopero indetto lo scorso mercoledì da Cub – adesso chiede di far fare bella figura in occasione di Expo, mette sul piatto quattro lire senza però entrare nel merito delle questioni che i lavoratori di queste aziende pongono da tempo sul piatto, soprattutto dal punto di vista della qualità del lavoro e della sicurezza. Non è sicurezza far lavorare gli autisti per 10/12 ore di fila. Mette in pericolo anche l’incolumità dei passeggeri”.

Ad aver sfilato tra i tanti sono anche gli attivisti della Rete No Expo, che fanno informazione e cultura sul territorio lombardo da ben otto anni senza mai aver avuto problemi di tipo legale: “Per oltre un anno – spiega Luca – i No Expo sono stati anche al centro della  lotta contro le vie dell’acqua a Milano. In quest’anno di lotte è successo molte volte che la polizia arrivasse ai nostri blocchi di fronte ai cantieri, ma 10 volte su 10 il suo intervento si è concluso con azioni sanzionatorie nei confronti dell’impresa! Questo è per dirti che gli attivisti No Expo non hanno  mai avuto problemi giuridici, legali, amministrativi o penali”.

Domenica 3 maggio sarà presentato presso l’assemblea finale della Rete il calendario AlterExpo, comprendente tutta la serie di iniziative che si terranno nei prossimi sei mesi: “Alcune di queste – continua – saranno la presentazione dello Spazio Fuori Mercato, costituito da un circuito comprendente tutta quella filiera produttiva e distributiva svincolata dalle logiche della grande distribuzione e della certificazione, che seguono la logica secondo cui non è buono solo ciò che è certificato, ma è genuino quel che è prodotto dalla terra e nel rispetto della terra. E non solo nel momento della distribuzione ma anche in quello della produzione. A metà giugno si terrà un’iniziativa sul tema della casa, poi ci sarà il pride, in cui saranno messi in discussione tutto l’immaginario e la retorica di genere realizzati da Expo: la donna massaia, che fa ricette, che sta ai fornelli, che rappresenta la maternità. 
Oltre a queste iniziative, poi, ci sarà un laboratorio della durata di sei mesi, che avrà l’obiettivo di produrre una serie di ragionamenti sulla città in trasformazione attorno a una nuova free press. Il primo numero sarà distribuito all’assemblea finale, e l’invito sarà quello di collaborare a un lavoro che dal primo novembre, data di fine dell’Esposizione, inizierà a guardare ai problemi della città senza più Expo”.

Funzionamento:
A fare giudizio nei prossimi mesi non saranno solo quelli che hanno pagato il biglietto. Tra loro, già da oggi, si muoveranno impegnatissimi migliaia di ragazzi – settemilacinquecento in tutto, per l’esattezza – che hanno accettato di prestare la propria collaborazione all’evento in cambio di due cose: un tablet e l’opportunità di poter arricchire il proprio curriculum grazie a un lavoro non retribuito. Questi “volontari” sono considerati da molti vittime di sfruttamento, ma anche presi di mira. In maniera simile a quei “choosy” che hanno scelto la strada #Iononlavorogratisperexpo.
Secondo Luca, “questa è una grande mercificazione, perché il volontariato si fa per il sociale e non per qualcosa che è costato miliardi di denaro pubblico ai fini di soggetti privati. Nella miseria sociale del nostro paese, dove la gente si laurea a 25 anni e a 40 se le va bene è ancora precaria, si gioca creando un falso immaginario per cui si dice che se farai il ‘volontario’, allora conoscerai migliaia di persone e avrai centinaia di opportunità per trovare un futuro lavoro. Come spiegare che sono tutte chiacchiere? 
Si gioca su questa comunicazione suadente e sul fatto che la stragrande maggioranza della popolazione italiana è ignorante rispetto ad Expo e alle sue dinamiche. E ciò significa anche non approfondire tutto il ragionamento sulla retorica del volontariato!”
E’ ovvio che nella disperazione sociale ci si caschi: 7500 hanno accettato. Ma queste figure, che altrove sono sempre state lautamente pagate, avranno il compito di far funzionare parte di una macchina che genererà molto profitto.

E così, nel momento in cui la Grande Opera apre i battenti, la sua stessa materialità torna a tradirla, rendendo obsoleto ogni pilastro su cui va a poggiarsi: quello fisico, perché i muri di Expo traballano; quello retorico, perché lo “sterile antagonismo” della coomunicazione politica è facilmente smontabile; e infine anche quello strutturale, perché il sistema dei volontari, se non opportunamente alimentato, andrà a morire progressivamente.
Lasciamo ai posteri l’ardua sentenza, con l’auspicio di deprecarizzarci entro i prossimi sei mesi e correre a comprare un biglietto per Milano.

E buon Primo Maggio :)





Giulia C.

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