Sono un'amante della lettura quindi
nulla mi spaventa: è la bugia
più grande che io possa tirar fuori dalla mia bocca oggi. A ventidue
anni, con una laurea in lettere. Amo la lettura, per questo sono qua
io e siete qui voi, tuttavia è una passione che non mi rende esente
dallo shock del mattone. Perché sì: troppo grossi fanno paura (e
non ridete). Dopo aver vinto l'impresa titanica del corpo a corpo con
il Don Chisciotte,
pensavo di aver sconfitto la mia fobia, eppure mi sbagliavo. Sono
ormai arrivata a una consapevolezza che mi ha rasserenata: alcuni
libri vanno letti a puntate.
Potrà sembrare un'eresia, ma si tratta solo di rispettare la natura
dei romanzi stessi. Il Don Chisciotte,
che a diciassette anni ho affrontato di mia spontanea volontà in due
settimane, in realtà è composto di due libri. Ma lasciando da parte
Cervantes, è di un vero e proprio feuilleton
che voglio parlarvi.
I
romanzi d'appendice, o romanzi a puntate, spopolano nell'Ottocento in
Francia e in Inghilterra per poi diffondersi in maniera virale in
tutto il continente e oltre. Con una cadenza periodica, capitoli di
una storia venivano pubblicati separatamente su testate più o meno
note. Terminata la storia, ne iniziava un'altra, e di quei capitoli
sparsi se ne faceva un'edizione unica. Così è nato il mio mostro
nero, Hard Times, di
Dickens.
Siamo
a metà dell'Ottocento, le vendite del periodico «Household
words» sono a ribasso, così si
decide di variegare l'offerta con qualcosa che tiri. Viene contattato
Charles Dickens, accetta l'offerta e vuole dare «il più duro colpo
di cui sono capace» contro gli utilitaristi, in nome di coloro che
vivono il dramma di un mondo divenuto industriale, fatto di suoni
aspri e cacofonici, un mondo grigio e inospitale, dove si consuma il
rito della moderna produzione. E in quella stessa realtà incubo
della sua infanzia, Dickens prende la penna in mano: nasce Hard
Times and Soft Hearts, edito poi
nel 1854 con il titolo per cui lo conosciamo ora. Ma Dickens era uno
scrittore fluviale, più volte mi è stato ripetuto, e i suoi lettori
lo sanno senza ombra di dubbio. Ne nasce un caposaldo della
letteratura vittoriana.
Come
ha affermato Francesco Petricone, «è la più forte critica
all'utilitarismo inglese di quegli anni che irretisce le menti umane
e trasforma in enormi fabbriche alienanti». Siamo in un periodo di
profonda crisi, le rivoluzioni portano con sé non solo le speranze.
Sono
molte le storie che si intrecciano, le vite che si incontrano e si
scontrano sullo scenario di Coketown. Cito
Carlo Pagetti e Oriana Palusci quando vi dico che leggere Tempi
Difficili è
un'esperienza «straniante e
allucinata», nulla sembra poter esser vero eppure è così reale.
Palpabile. E contro l'idea benthamiana del linguaggio
poetico inteso come disonesto e allusivo, Dickens si scaglia
lacerandone le basi. Quella stessa Coketown
sinonimo della (ir-)ragione umana, una città senza luce né colore,
prende vita tramite l'uso di codice immaginativo animato da metafore
e personificazioni più descrittive di un qualsiasi lessico
denotativo. Perché, in fondo, gli stessi utilitaristi hanno una
profondità imperscrutabile che non può essere misurata. Perché una
vita non si anima di fatti ma
di fantasia. Al mondo
degli adulti, Dickens preferirà sempre quello dei bambini, e forse
dovremmo scegliere anche noi da che parte stare.
Neppure in quel momento, mentre si avvicinava alla sua vecchia casa, avvertí su di sé alcun benefico influsso. Che cosa aveva piú da spartire ormai con i sogni dell'infanzia, con le sue fiabe leggiadre, con la grazia, la bellezza, l'umanità, le illusioni di cui si adorna il futuro? Tutte cose tanto belle in cui credere da piccoli, da ricordare con tenerezza una volta adulti perché, allora, anche la piú insignificante di esse si eleva alla dignità di una grande e benevola disposizione del cuore che consente ai piccini che soffrono di avventurarsi per le vie irte di sassi di questo mondo, conservando quel piccolo angolo fiorito con le loro mani pure. Un giardino nel quale i figli di Adamo farebbero meglio a entrare piú spesso per scaldarsi al sole con fiducia e semplicità, liberi da vanità mondane.
Già, cos'aveva ormai da spartire con i ricordi dell'infanzia? Il ricordo di come, al primo incontro, attraverso la luce delicata dell'immaginazione, la Ragione, le fosse apparsa come una divinità benefica che additava a divinità altrettanto magnanime e non già come un idolo arcigno, gelido e crudele, con vittime legate mani e piedi; grossa figura ottusa dallo sguardo fisso che solo un sistema di leve, azionato da un preciso numero di tonnellate, sarebbe stato in grado di smuovere. La casa paterna e la fanciullezza le rimandavano immagini di fonti e sorgenti inaridite nell'istante stesso in cui sgorgavano dal suo giovane cuore. Niente acque dorate per lei: esse fluivano invece a fecondare la terra in cui si coglie l'uva dai rovi e il fico dal pruno
Già, cos'aveva ormai da spartire con i ricordi dell'infanzia? Il ricordo di come, al primo incontro, attraverso la luce delicata dell'immaginazione, la Ragione, le fosse apparsa come una divinità benefica che additava a divinità altrettanto magnanime e non già come un idolo arcigno, gelido e crudele, con vittime legate mani e piedi; grossa figura ottusa dallo sguardo fisso che solo un sistema di leve, azionato da un preciso numero di tonnellate, sarebbe stato in grado di smuovere. La casa paterna e la fanciullezza le rimandavano immagini di fonti e sorgenti inaridite nell'istante stesso in cui sgorgavano dal suo giovane cuore. Niente acque dorate per lei: esse fluivano invece a fecondare la terra in cui si coglie l'uva dai rovi e il fico dal pruno
Serena Mauriello
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