A
partire dalla seconda guerra mondiale, e negli anni a seguire sino al
1960, una diaspora forzata coinvolse un numero di italiani ancora non
precisamente identificabile. Dai territori istriani, dal Quarnaro e
dalla Dalmazia, superarono il nuovo confine Jugoslavo per rientrare
in Italia, speranzosi di trovare un nuovo inizio fuggendo dalle
sevizie comuniste dell'Armata Popolare di Liberazione della
Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito.
I
numeri riguardanti il genocidio sono stati a lungo e, probabilmente
sempre lo saranno, incerti per la natura del suo svolgimento. Persone
di ogni età e sesso venivano deportate dai soldati titini durante la
notte, trascinate tra la natura carsica, dove, legate in coppia con
il filo spinato, venivano gettate nelle foibe, a morte certa. Al
contempo, molti altri seguirono il destino che accomuna le vittime di
ogni
genocidio, andando
in contro ai campi di lavoro forzato o alle prigioni militari.
Quella
che segue, è la preziosa testimonianza diretta di Angela Gripari,
più che un monologo, è un fiume di parole di una reduce dell'esodo
istriano-dalmata combattente per
natura.
O per
necessità.
“L’Istria la
conoscete, perlomeno sulla carta geografica, è un triangolo
rovesciato, però per me ha la forma di un cuore di circa 5000 km.
[..]
Inizia
così l’esodo abbandono della terra dei padri dei morti delle
chiese della case per coltivare gli ideali di patria e religione
ricordo l’oltraggio subito dalla bandiera da un gruppo di
scalmanati slavi che dopo averla ammainata ne fecero scempio sentimmo
di essere rimasti senza patria e l’esilio era l’unica via
obbligata.
L’Istria è
stata liberata dai tedeschi, malgrado qualcuno non ci creda. Dopo l’8
settembre son venuti giù dall’interno dell’Istria, con la
misfatta dell’esercito italiano, gli Slavi ed hanno in cominciato
con foibe, uccisioni, fucilazione, deportazioni, ed eravamo rimasta
in balia di questa gentaglia, di questi partigiani comunisti di Tito,
se non che, per fortuna, i primi d’ottobre del 43, l’Istria è
stata aiutata dal SS. Noi siamo stati liberati. Le scaramucce
avvenivano nelle campagne, questo era logico, se qualcuno moriva…
Moriva, insomma si sparavano fra loro, ma noi nelle città siamo
stati bene […] avevamo dei bombordamenti, soprattutto a Parenzo,
perché venivano a caricare la bausite. […]
Loro
di Tito venivano a chiamarci, soprattutto noi diplomati, di una certa
categoria, in casa con i fucile per andargli a pulire le sale da
ballo, per lavargli la biancheria, per attaccare i manifesti anti
italiani per la strada. Sono venuti un giorno anche da me, io ho
detto <<No, avete portato la libertà ed io sono libera di non
venire>> lui dice <<Parentini, tutti fascisti![…]>>.
In un primo momento avevo lo spirito forte, poi ho preso paura.
Allora sono andata dal mio medico e gli ho detto <<Senta, o mi
spacco il braccio o me lo mette in gesso prima che io me lo rompa da
me!>> mi dice <<No, senti, abbi pazienza Angelina mia, ci
penso io.>>, allora mi ha fatto una guaina di gesso che io
mettevo quando uscivo di casa o quando sapevo che veniva qualcuno.
L’avevo sul braccio destro e dicevo <<Abbi pazienza, ho il
braccio rotto, non posso venire!>>
Insomma una
notte, perché facevano sempre di notte, sento battere alla porta.
Hanno preso mio padre e gli hanno detto <<Vieni un momentino al
comando, poi tra un paio d’ore torni a casa>> cosa che era
risaputa, dicevano sempre così. Di fronte a gente armata uno ci
andava, per forza. L’hanno portato in un castello lì vicino
Parenzo, prigioniero. Allora sono andata in cerca di papà. Poi un
giorno, senza dir niente, hanno caricato queste persone su una barca
a motore e noi abbiamo cercato d sapere dove li portavano. Poi, dopo
girando da un comando a quell’altro, abbiamo saputo che li hanno
portati a Rovigno. Allora poi siamo corsi io e un’altra signora
che, era… gli avevano preso il marito, li avevano chiusi in una
prigione che, per fortuna, era mezza sotterranea e mezza fuori, e
allora lì gli parlavamo. Poi un giorno non c’erano, più allora io
sono andato al comando a Pola e sono andata lì per sapere dove
avevano portato sta gente. Un po’ con le belle un po’ con le
brutte, perché io ero così, non mi risparmiavo, mi hann detto che
li hanno portati in Arsia. Con mio papà, per fortuna, diciamo un po’
per fortuna un po’ per sfortuna, hanno preso anche un ragazzo che
era mio amico e li hanno messi vicini di branda, e questo mio
compagno di scuola che era in prigione non si è mai più saputo
niente di lui. Un giorno sono venuti a chiamarlo i soldati di Tito e
dice <<Vieni che devono farti il processo>> e (lui) dice
a mio papà <<Signor Checco>>, mio padre si chiamava
Francesco, <<Preghi per me>>[…]. E’ andato via e
nessuno ha più saputo niente di lui, se l’hanno ammazzato se
l’hanno buttato in foiba, insomma non si sa. E dopo che buttavano
questa gente nelle foibe loro facevano i balli, facevano i festini
fuori dalla foiba, come felicità che avevano eliminato questi. E li
legavano con il ferro spinato con le mani dietro la schiena a due a
due li portavano sul ciglio, così il morto portava giù i vivo. E
anche per settimane si sentivano pianti e strilli. […]
Allora io ho
cercato di andare ad Albona sono andata lì e per fortuna c’ erano
alcune persone italiane che mi hanno ospitato lì ed io di giorno
cercavo di andare a vedere papà per dargli un sostegno morale
insomma a quest’uomo. Allora una signora mi fa <<Vieni vieni,
io ho la mia cantina che ha la botola che va sulle prigioni dove c’è
lo scolo per l’aria>>, loro mandavano gli uomini a
passeggiare nel cortile, nell’ora d’aria, dove cera questa botola
con la griglia. Allora io andavo nella botola di questa signora e
parlavo con mio papà, si metteva lì e scambiavamo due parole. […]
Poi ho saputo che era arrivato un giudice slavo veramente bravo,
allora io sono andata a parlare con questo giudice e gliene ho dette
un po’ belle, un po’ brutte, come capita quando si è eccitati,
dico <<Senta, ma anche lei ha una figlia? E se un domani a lei
accadesse qualche cosa, che direbbe sua figlia?>> allora (lui)
dice << Lei mi faccia avere una dichiarazione da uno del suo
paese che non è vero che suo papà sia andato a dare delle pedate a
dei partigiani comunisti morti che avevano esposto lì in piazza e io
lo libero>>. Ho trovato la signora che mi ha fatto questa
dichiarazione e gli hanno fatto un processo, ecco, regolare più o
meno. […] Poi il giudice dice <<Allora se vuole che io glielo
dia a casa deve portare il perdono scritto dei figli e dei fratelli
di questo signore che hanno ucciso>>. Io li conoscevo perché
son gente fuori dalla campagna di Parenzo, allora sono andata alla
ricerca di uno di questi qua e gli ho detto <<Senti, tu mio
papà lo conosci da quando eri piccolo, ti pare che mio papà possa
fare una cosa del genere? Il giudice mi chiede il tuo perdono per
questo>>. Allora un po’ ha tracagnato e poi me l’ha fatto,
così ho portato anche il perdono ed io ho portato mio papà a casa.
Poi abbiam saputo che mio papà lo volevano riprendere, insomma
imprigionarlo ed è scappato fino a non so che punto a piedi poi ha
trovato una corriere ed è andato a Trieste, insomma stava con dei
parenti lì a Trieste. Io volevo andarlo a trovare […] poi non si
poteva scrivere perché c’era la censura […]. Allora visto che io
dovevo andare, delle persone mi hanno dato delle lettere e avevo
anche dei soldi da portare a Trieste, fatto sta che o hanno fatto la
spia o non si sa, comunque quando stavo a metà porto con una barca a
remi, sono venuti con un motoscafo, mi hanno presa e mi hanno portata
in prigione. Allora durante il tragitto, tutte le lettere le ho prese
e le ho buttate in mare […] e i soldi li ho messi nel taschino
della camicetta. Quella sera parlavano di portarci fuori, ed ero
giovane allora, e con tutte queste ragazze che venivano malmenate,
che venivano prese, sverginate avevo una paura boia. Quella sera è
venuto un mio compagno di scuola che era diventato con la stella
rossa, partigiano comunista di Tito. Allora dice << Se hai dei
soldi dammeli, io li metto qui nel casse, domani te li rendo>>
io gli ho detto <<Bhè senti, in prigione ladri non ci sono, è
inutile che tu li tieni un paio d’ore, lasciameli>>, me li ha
lasciati, dice <<Allora che facciamo? >>
ed io <<Senti,
non so che dirti, io andrei a casa perché c’ho sonno.>> e
lui << E’ ma hai trasgredito alla legge>><<Ma non
mi davate il permesso, dovevo andare a Trieste>>. Niente mi
hanno lasciato lì in prigione tutta la notte ed al mattino, come un
grande delinquente, uno col fucile davanti, uno col fucile uno col
fucile di dietro, mi hanno portata in tribunale. In tribunale c’erano
tutti questi slavi, insomma, così … Però c’era anche questo mio
compagno di scuola. Mi fanno il processo, che io ho voluto
trasgredire alle leggi, che sono una reazionaria, che tira che molla
… E poi questo ragazzo mi fa <<Ti ricordi che eri capo
centuria della g?>> <<Certo che mi ricordo, ero capo
centuria della g, però a scuola ci venivi anche tu, e alle adunate,
quand’eran le feste, andavamo insieme vestiti in divisa, ti
ricordi?!>>, allora lui è rimasto … Perché forse non
pensava che io avessi il coraggio di dirglielo. E allora dice <<
Bhé, sai, è troppo comodo mandarti a casa così>> dico
<<Datemi una multa >>, io sapevo che avevano bisogno di
soldi. Allora vabbè, tutto sommato mi hanno dato una multa, ho
pagato la multa.
[…]
Noi andavamo sempre vestiti in bianco rosso e verde, potevamo usare
la bandiera italiana però bisognava la stella rossa in mezzo. Ci
vestivamo sempre così! Magari i lacci delle scarpe bianchi, le
calze, i calzettoni rossi , una gonna verde. Insomma, bianco rosso e
verde: sempre! Io avevo una cintura, che mi ero fatta quando ero
giovane, bianca rossa e blu perché allora mia andava bene … l’ho
presa e l’ho bruciata perché era bianca rossa e blu come la
bandiera slava!
[…]
Quando andavamo fuori la mattina avevamo tre spie, per vedere di cosa
parlavamo, dove andavamo e con chi andavamo. Una mattina io mi sono
incontrata con tre amiche così per fare un giro, perché non si
poteva mica sempre stare a casa! Allora si avvicinano questi tre
figuri, si avvicinano, si mettono un po’ lontanino, ma insomma sai,
in modo che potessero sentire, poi noi veneti abbiamo il discorso
sempre un po’ forte. Allora noi per dispetto ci siamo messe a
parlare di moda, cosa che non si aveva neanche i vestiti da mettersi
quasi. Allora io mi volto e gli dico <<Senti ma perché sei
così lontano? Vieni qui vicino, fai con noi il discorso e almeno
senti, senti meglio quello che diciamo!>>, e quindi se ne sono
andati, ma noi avevamo sempre qualcuno che veniva dietro per
controllarci.
[…]
Del mio paese siamo venuti tutti via, tutti in Italia […] ma il
triste è una cosa, che quando, non a tutti per fortuna, a me no,
dico sinceramente, ma dei miei conoscenti, quando il treno di questi
profughi partiva da Trieste e li mandavo tanto pere dire, magari a
Bari, a Venezia, dico Venezia, e Bologna, piombavano i vagoni e non
gli davano neanche un bicchiere d’acqua perché dicevano <<Siete
fascisti, cosa volete, tornate nella vostra terra!>> e questo è
stato triste. Purtroppo gli italiani ci hanno accolto un po’ male,
abbiamo pensato di trovare una mamma, abbiamo trovato una matrigna.
Lo devo dire con dolor di cuore. Io sono italiana dal primo capello
all’ultima unghia del piede, però devo dire che è stata dura
insomma.
[…]
Lasciamo questi brani di storia ai giovani perché seguano degli
ideali di libertà e di pace, ricordando loro che decine e decine di
migliaia di giovani si è perduta nel dramma della guerra e per noi
nel dramma dell’esilio. Ricordino e rendano omaggio ai migliaia di
Italia che hanno conosciuto la morte nelle tenebre degli abissi, in
numerose foibe, senza una croce, senza un nome, senza un fiore. Fummo
per sei secoli con Roma, per cinque secoli in Istria sventolò il
gonfalone di San Marco, non sarà violenza straniera ad impedire le
nostre nobili pietre di testimoniare la cultura e la civiltà della
nostra Italia.”
Ho
ascoltato il grido silenzioso di una donna, in memoria di ciò che ha
vissuto quando ancora donna non era. Di quei giorni di prigionia, la
stessa vissuta da suo padre, da centinaia di genitori e figli.
Ho
osservato il pianto privo di lacrime di una donna in memoria di ciò
che ha vissuto quando ancora donna non era. Della tragedia istriana,
delle Foibe e di coloro che hanno perso la vita difendendo i propri
ideali e la propria patria. Di uomini, donne, bambini, tutti
innocenti, che si sono condannati ad un esilio autonomo e allo stesso
tempo forzato pur di non rinnegare le proprie origini italiane.
L'Italia
amata madre, mostratasi matrigna.
Fiume,
Pola, Parenzo, Trieste luoghi in cui ancora si respira la malinconia,
la tristezza, la rabbia, l’odio, la vergogna, la paura di un popolo
debole politicamente, ma forte d’animo.
L’esodo
istriano dalmata una realtà scomoda ad ogni fazione politica, una
realtà costretta al silenzio, nascosta nella natura carsica come i
corpi della sua violenza.
L'Italia
alza la voce ogni 10 febbraio, per chinare il capo al ricordo delle
vittime. Per creare una coscienza storico-sociale. Perché tutto ciò
rimanga impresso nella memoria di tutti e di ciascuno. Per riempire i
libri fino a pochi anni fa bianchi di quel ricordo.
Serena Mauriello
Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata su http://www.talentonellastoria.com/
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