venerdì 27 febbraio 2015

[Settimana Maestra #5 - Rai Guest Video] Eugenio Montale racconta se stesso

Abbiamo deciso di chiudere questa speciale settimana dei Maestri con contenuti che potessero creare un altro ritratto a tutto tondo: quello di Eugenio Montale
Martedì vi abbiamo proposto una meravigliosa intervista a Barbara Carniti, la figlia di Alda Merini. Oggi, sperimentando per la prima volta il formato video, abbiamo rispolverato una serie di interviste tratte dall'archivio storico della Rai...



Incontri, 1966



Xenia, Il grillo di Strasburgo
                             


Arte e Scienza, 1969

giovedì 26 febbraio 2015

[Settimana Maestra #4] - "Ripenso il tuo sorriso" di Eugenio Montale

 Ripenso il tuo sorriso - In un momento di malessere interiore, solo il pensiero dell’amico Boris Kniaseff sommerge, come un’ondata di calma, i tormenti volubili la mente del poeta.





A K.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma...

Eugenio Montale


[Nasce a Genova nel 1896, ultimo dei sei figli di una famiglia di commmercianti. Diplomatosi in ragioneria nel 1915, coltiva i propri interessi frequentando le biblioteche delle città e ascoltando le lezioni private di filosofia della sorella. Percorre quindi una formazione da autodidatta, senza condizionamenti esterni, appassionandosi di lingue, letteratura e musica.
Montale entra nell’Accademia militare di Parma, dopo una breve esperienza al fronte in Val Pusteria e Vallarsa viene congedato nel 1920. Inizia a frequenta gli ambienti culturali torinesi, ma sette anni dopo si trasferisce a Firenze dove collabora con l’editore Bemporad. Entra finalmente nel mondo della poesia italiana con la pubblicazione di Ossi di Seppia. Collabora per varie riviste e frequenta il circolo letterario del caffè delle Giubbe Rosse dove entra in contatto con Gadda e Vittorini. Comincia, nel frattempo, a lavorare con traduttore dall’inglese.
Al termine della Seconda Guerra mondiale, si iscrive al Partito d’Azione continuando la sua collaborazione per vari periodici.]
Nel 1967 viene nominato senatore a vita, nel 1975 riceve il Premio Nobel per la Letteratura. Muore a Milano sei anni dopo.



mercoledì 25 febbraio 2015

[Settimana Maestra #3] - Dualismo, di Arrigo Boito


Dualismo - Luci ed ombre. Cherubi e demoni. Sorrisi ed angosce. È traversando l’ambiguità della natura umana che Arrigo Boito calca a sangue il manifesto dell’inquieto e nefasto movimento della Scapigliatura...



Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo
sono un caduto cherubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l'ale,
verso un lontano ciel.
 

Ecco perché nell'intime
cogitazioni io sento
la bestemmia dell'angelo
che irride al suo tormento,
o l'umile orazione
dell'esule dimone
che riede a Dio,  fedel.
 
Ecco perché m'affascina
l'ebbrezza di due canti,
ecco perché mi lacera
l'angoscia di due pianti,
ecco perché il sorriso
che mi contorce il viso
o che m'allarga il cuor. 

Ecco perché la torbida
ridda de' miei pensieri,
or mansueti e rosei,
or violenti e neri;
ecco perché con tetro
tedio, avvincendo il metro
de' carmi animator.
 
O creature fragili
dal genio onnipossente!
Forse noi siamo l'homunculus
d' un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozioso gioco
un buio Iddio ci fe'.
 

E ci scagliò sull'umida
gleba che c'incatena,
poi dal suo ciel guastandoci
rise alla pazza scena
e un dì a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col pie'.
 

E noi viviam, famelci
di fede o d'altri inganni,
rigirando il rosario
monotono degli anni,
dove ogni gemma brilla
di pianto, acerba stilla
fatta d'acerbo duol.
 

Talor, se sono il demone
redento che s'india,
sento dall'alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgureggia il sol.
 

L'illusion-libellula
che bacia i fiorellini,
-l'illusion-scoiattolo
che danza in cima i pini,
-l'illusion-fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,
 

viene ancora a
 sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l'anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m'attira
nella profonda spira
dell'estro ideator.
 

E sogno un'Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell'Ideale
che mi fa batter l'ale
e che seguir non so.
 

Ma poi, se avvien che l'angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impauriti e mesti;
allor, davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto:
e sogno allor la magica
Circe col suo corteo 
d'alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
E il cielo, altezza impervia,
derido e di protervia
mi pasco e di velen.
 

E sogno un'Arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse immagini
d'un ver che mente al Vero
e in aspro carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmiando vien.
 

Questa è la vita! L'ebete
vita che c'innamora,
lenta che pare un secolo,
breve che pare un'ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s'accheta più!
 

Come istrion, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d'equilibrio
sovra una tesa corda,
tal è l'uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù.

Arrigo Boito
[Noto poeta, narratore e compositore, nasce a Padova il 4 febbraio 1842. Dopo aver studiato violino, composizione e pianoforte al conservatorio di Milano, si reca a Parigi con Franco Faccio e da lì viaggia poi tra Polonia, Germania, Belgio e Inghilterra.
I suoi anni di lavoro lo portano a comporre svariati lavori, come l’Inno delle Nazioni, musicato da Giuseppe Verdi nel 1862; la nota opera “Mefistofele”, basata sul Faust di Goethe e causa di disordini e scontri per il suo supposto “Wagnerismo”, ed altri libretti composti per artisti come Ponchielli, Faccio e Catalani. Le sue poesie, come Dualismo, affrontano quasi sempre il disperato tema della lotta tra bene e male e le opere a cui tenta di dar vita finiscono troppo spesso distrutte da insoddisfazione e incompletezza. E' riconosciuto come la figura centrale del movimento letterario della Scapigliatura, e dirige il conservatorio di Parma dal 1889 al 1897. Muore a Milano nel 1918.]

martedì 24 febbraio 2015

[Settimana Maestra #2 - Guest Post] Salotto Erotico Italiano Intervista Barbara Carniti: figlia dell'indimenticabile Alda Merini

Dopo la poesia di ieri, abbiamo deciso di presentarvi un'immagine di Alda Merini che fosse più erotica. Per farlo non potevamo che riferirci al Salotto Erotico Italiano, che ci ha offerto questa intervista, uscita lo scorso 21 marzo 2014

Barbara Carniti, figlia della grande Poetessa dei navigli Alda Merini, ci ha concesso, in occasione dell’anniversario della nascita di Alda – oggi anche Giornata mondiale della Poesia – (21 marzo 2014, ndr) questa prima intervista in assoluto del Salotto Erotico Italiano. Noi le siamo davvero molto grati.



P. Alda Merini fu un’anima tormentata, profondamente provocatoria e provocante, fuori dagli schermi, innocente ed erotica. Per noi del Salotto Erotico Italiano è un vero piacere poterne parlare con te, Barbara.

B. Il piacere è mio. Grazie.

P. Tua madre una volta scrisse: “Non sono bella, sono soltanto erotica”. Tu, da figlia, la riconosci in questa sue parole?

B. Sì. La riconosco perché essere “erotica” significava per lei parlare di carisma, di seduzione e lei era proprio così: una donna (e una mamma) carismatica. Seducente grazie alla dote innata della persuasione che aveva: lei sapeva proprio farsi ascoltare… è sempre stato bello “ascoltare” mia mamma.

P. Qual era il suo rapporto con l’altro sesso e che considerazione aveva Alda Merini del maschio?

B. Chiaramente, come dice tanta sua letteratura, Alda Merini era donna d’amore, capace di grandi amori. Magari erano amori intensi che lei viveva dentro, mai realizzati, mai concreti, ma amava molto gli uomini, i begl’uomini che
andavano a trovarla… Scriveva, infatti, “i miei amori cominciano nei tempi futuri”, a dire proprio che erano delle grandi, meravigliose chimere. Grandi e straordinarie anche poi nel dolore delle assenze.


P. Siamo un po’ tutti abituati a pensare ad Alda Merini come ad una persona senza limiti: assoluta e libera. Ne aveva?
Quali erano i suoi tabù più evidenti?

B. Da figlia credo che uno dei suoi tabù fosse proprio
la tenerezza: era, in questo, come le grandi Madri Antiche, quelle che i figli li carezzavano solo mentre dormivano. Mamma era così. Una mamma di grande amore. Ma di amore la cui tenerezza era un segreto
tra lei e i nostri sogni.

P. Mi sono sempre chiesto: ma quest’Italia ipocrita e bigotta,
era pronta per Alda Merini? Secondo te lo era?

B. No. Non era pronta. Infatti, l’ha bistrattata. Mentre mamma era in vita tutti la cercavano, perché Alda Merini faceva comunque notizia. Poi tutto è andato scemando e neanche Milano, la sua città, è stata in grado di ricordarla come lei meritava d’essere ricordata: prova ne è proprio la questione della Casa Museo di via Magolfa. Aperta con grande entusiasmo e poi lasciata al dimenticatoio e chiusa per mancanza di fondi. Lotte per la riapertura, sordità delle istituzioni. Disattenzione. Distrazione. Insomma… Alda Merini ha dato moltissimo alla città di Milano, ma Milano non ha saputo ricambiarla.

P. C’è una poesia erotica di Alda che personalmente trovo davvero magnifica, è Il suo sperma, da Clinica dell’abbandono. E’ stata anche tradotta in canzone in modo molto efficace dal maestro Giovanni Nuti. La riporto per i lettori che non dovessero conoscerla o ricordarla.


Il suo sperma bevuto dalle mie labbra
era la comunione con la terra.
Bevevo con la mia magnifica
esultanza
guardando i suoi occhi neri
che fuggivano come gazzelle.

E mai coltre fu più calda e lontana
e mai fu più feroce
il piacere dentro la carne.
Ci spezzavamo in due
come il timone di una nave
che si era aperta per un lungo viaggio.

Avevamo con noi i viveri
per molti anni ancora
i baci e le speranze
e non credevamo più in Dio
perché eravamo felici.

Penso che solo lei potesse cominciare con lo sperma e concludere con Dio in questo modo, con una considerazione del genere sulla Fede. Tu, Barbara, quali tratti ritrovi di tua madre in questa poesia?

B. Questa è una delle mie poesie preferite di mamma. C’è lei. La sua assoluta dedizione all’amore: “Non credevamo più in Dio perché eravamo felici”. Questi due versi riassumono il suo modo totalizzante di vivere l’amore. Era una felicità che
Alda Merini e sua figlia Barbara
non lasciava spazio ad altro: questo era mamma. Nella felicità, come nel dolore. Dismisurata.


P. Alda Merini fu a suo modo profondamente cristiana e profondamente erotica. Come madre, mi chiedo, che educazione vi ha dato? Quali valori ha voluto trasmettervi maggiormente?

B. Come spesso dico, mamma mi ha insegnato l’amore. Mi ha insegnato la tenacia. Mi ha insegnato la ricerca, la voglia proprio di conoscere e imparare. Mi ha insegnato il rispetto. Mi ha insegnato che a chi ama tutto è possibile. E mi ha insegnato che vivere è di gran lunga cosa più bella della poesia.



Intervista di Paolo Bianchi, uscita sul sito web del Salotto Erotico Italiano

lunedì 23 febbraio 2015

[Settimana Maestra #1] - "Ieri ho sofferto il dolore" di Alda Merini


 Ieri ho sofferto il dolore - Nel suo cammino verso un'introvabile Terra Santa, l’eterno dolore della Merini si trasforma in immagini lucide, terribilmente forti. Il suo delirio sfiora la morte, ne contempla la dolcezza. Poi, incredulo, torna a vivere sospeso in un unico interrogativo: perché continuare a cercare?





Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,      
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d'orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perchè l'immobilità mi fa terrore?

Alda Merini
[nasce a Milano nel 1931 da una famiglia modesta. Finite le scuole elementari, frequenta i tre anni di avviamento al lavoro in un istituto della città natia, tenta poi l'ammissione al liceo Manzoni senza riuscirci a causa del mancato superamento della prova di italiano. All'età di soli quindici anni risale il suo esordio letterario grazie alla guida di Spagnoletti che, nel 1950, la pubblica nell'Antologia della poesia italiana contemporanea dal 1909 al 1949. Nel 1947 viene internata per un mese in una clinica privata. Dal 1950 al 1953 frequenta il poeta Salvatore Quasimodo a cui saranno dedicate alcune sue poesie. Un anno dopo, termina la sua relazione con Giorgio Manganelli e sposa il padre delle sue figlio Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie di Milano. Per dieci anni, dal 1962 al 1972, è internata al Paolo Pini a causa dei suoi squilibri psichici, dovuti probabilmente alla sindrome bipolare. L'esperienza drammatica e sconvolgente del manicomio sarò soggetto di quello che può essere inteso come suo capolavoro, La Terra Santa, scritto nel 1979. passa poi un nuovo periodo di crisi, nel 1986 viene nuovamente internata. Tre anni dopo ritorna alla ribalta poetica grazie a numerose collaborazioni con personaggi di spicco del panorama culturale italiano. Muore a Milano il 1 novembre 2009 a causa di un'affezione tumorale.]

giovedì 19 febbraio 2015

[Parlanno 'e poesia di R. Rizzo] - Il verso libero e gli innovatori della poesia napoletana

Anche la poesia napoletana ha visto animarsi, nel tempo, accese dispute rispetto ai soggetti trattati ( vedi Nun è overo di Pasquale Ruocco), alla forma usata ( se in rima o in versi  sciolti) o ancora, rispetto a entrambi gli aspetti. Sotto questo profilo vi è stato solo un grande innovatore, osteggiato o malvisto dai tradizionalisti: Raffaele Pisani, che ha saputo coniugare
le tecniche largamente usate nella poesia italiana con la grande potenzialità espressiva del napoletano.
V’è da osservare che chi scrive poesie in italiano, da tempo, usa sempre o quasi sempre versi sciolti, rinunciando - consapevolmente o meno - alla grande musicalità del  verso che si avvale della rima o quanto meno dell’assonanza. L'adozione di questa tecnica sembra all’apparenza più facile, ma in realtà è molto più difficile, vista l'assoluta padronanza del linguaggio che occorre avere per scegliere sempre le espressioni più appropriate e per evocare immagini che possano restare scolpite nell’animo di chi legge o ascolta. È facilmente intuibile che questa capacità non tutti
la possiedono, ma, in realtà, solo quelli che ne sono dotati possono, a mio avviso, a buona ragione essere definiti poeti.
La volontà di cambiare e di uscire dagli stereotipi e dall’abusato folklore è bene espressa nelle poesie che seguono, che propongo alla vostra attenzione, sperando che vi siano gradite. 
La prima, di Ruocco, è una esortazione ad abbandonare i luoghi comuni e le coloriture folcloristiche, cercando di prendere spunti dalla realtà di ogni giorno.
La seconda, del Pisani, è quasi l’esposizione in versi del suo nuovo credo, cui  rimarrà sempre fedele.(Non parlo di decalogo volutamente, perché il Pisani trovò il modo di riscrivere sul sagrato di una chiesa anche i suoi 10 comandamenti per la Napoli che ha tanto amato).




Nun è overo
di Pasquale Ruocco

No, nun ‘e state a sentere ‘e ccanzone !!
Chistu mare è celeste, ‘o cielo è d’oro,
ma stu paese nun è sempe allero.
Nun sponta sempe ‘a luna a Marechiaro
e nun se canta e se fa sempe ‘ammore:
cheste so’ fantasie p’’e furastiere.
Si vuje vulite bene a stu paese,
fermateve nu poco dint’’e viche,
guardate dint’’e vasce e for’ê chiese!

Venite assieme a mme, p’’e strate antiche;
invece ‘e cammenà vicino ô mare,
parlate cu chi soffre e chi fatica .
Quanta malincunia p’’e ccase scure
addò nun trase st’aria ‘e primmavera !
Guardate quanta Sante attuorno ê mmure !

Sta gente puverella crede a Ddio,
patisce rassignata e pare allera:
e chi è cecato canta:« ‘O sole mio !»
N’hanno chiagnute llacreme ll’artiste:
e quante ne so’ muorte int’’o spitale !
Stu paese d’’o sole, comm’è triste !!

I’ veco comm’a n’ombra a ogne puntone
e penzo â gente ca lle manca ‘o ppane…
Quanta buscie ca diceno.. ‘e ccanzone !!




 Aggio cercato
di Raffaele Pisani

Aggio cercato ‘e cosere pe tte,
poesia d’’a terra mia, na vesta nova;
ausanno filo d’ogge
e n’aco che appartene già a dimane.

Aggio cercato d’’a vita ‘e capì ‘e ccose,
chelle cchiù ovère,
parlanno poco d’’a luna e, quase niente,
‘e ll’uocchie appassiunate ‘e na Maria.

E nun è stato, no, nu tradimento
pe tte, poesia antica, napulitana,
pecchè aggio cercato
‘e te levà ‘a dint’a ll’uocchie
tutta chella pòvere ca cummigliava 
‘a verità d’ogne prublema.

Mo, poesia, cagnate songo ‘e tiempe,
nun ce sta cchiù perimma int’’e penziere
e nun se po’ stà cchiù ncatenate
a ppaggine passate :
nu libbro nuovo
s’arape nnanz’a nnuje..
Tiempo d’azione è ogge !!


Rubrica a cura di Romano Rizzo


domenica 15 febbraio 2015

[La Settimana politica in versi]- Non c'è necessità di raccontare

Non c'è necessità di raccontare... e neanche di spiegare ciò che tutti noi sappiamo già, ma non sappiamo forse più sentire. Ne perdiamo 300 a settimana.



Non c'è necessità di raccontare
che arrivino guidati dalla fame,
che fuggano la scure delle guerre,
che trovino scafisti e malaffare,

C'è chi riscatterà con vite grame,
fuliggini sudate e fonderie,
nel sole delle terre e delle serre,
la libertà da sete e carestie.

Ne abbiamo persi troppi nelle scie
d'un solco bianco nell'azzurro mare.
A stento ricoperti dalla bare,
un sole freddo e gelide omelie.

Gianfranco Domizi

venerdì 13 febbraio 2015

[NarrAzioni] - Qahera: le supereroine portano lo hijab

Amiira è piena di pensieri, crede di essere pazza. Attorno a lei, da un tempo troppo lungo per essere ricordato, ci sono centinaia di voci, volti e mani che la tormentano. La scusa è dannatamente inattaccabile ed è sempre la stessa: la vogliono salvare.
La vuole salvare il padre, che le promette purezza e gioia in cambio di gioia e accurata purezza. 
La vogliono salvare gli uomini attorno a lei, che sicuramente prima o poi le prometteranno sicurezza e gioia in cambio di silenzio e acquiescenza.
Come se non bastasse, poi, la vogliono salvare anche alcune donne, che le dicono che il hijab che porta in testa le fa male. Che la rende debole. 
Amiira non si sente debole, è solo stanca di tutta questa voglia che hanno gli altri di salvarla. Così, con una determinazione che per forza di cose appartiene alle ragazze intelligenti, decide di salvarsi da sola.

Ogni supereroe che si rispetti ha un passato colmo di significati. E questi molto spesso non sono solo intimi, ma anche e soprattutto sociali; Amiira non è una persona, è una linea improvvisata. Una linea tanto semplice e sintetica da poter rappresentare centinaia di migliaia di diciannovenni. Ed è proprio da un “tratteggio” simile a questo che in Egitto, tra le mani di un’artista e lo schermo di un tablet, è nato quasi per caso un fumetto emblematico e rivoluzionario: Qahera.



Qahera in arabo significa “conquistatrice”,

giovedì 12 febbraio 2015

PoesiArte #2 - Regalo

Regalo Alla nostra età si è tutte belle e nuove, come un regalo. E regalarsi, quando c’è consapevolezza e padronanza di sé, può dar vita ad esplosioni erotiche capaci di arricchire non solo il corpo, ma anche e soprattutto quel che sta sotto di lui: noi stesse.

Per la seconda uscita della rubrica PoesiArte, curata da me (Julia) e mia sorella Martina, abbiamo scelto di proporvi qualcosa di più erotico, forte e saturo. Come le immagini che lo accompagnano...

Per ingrandire le fotografie di Martina, cliccaci sopra


Partendo dalle labbra
 con le labbra
voglio scendere e scendendo amarti tutto
col Presente tra le mani amarti
e come una bambina 
disperare, reclamarti.

E sono una bambina col Presente tra le mani
partendo dal tuo torso
con il torso
regalarmi voglio
tremando tra i tuoi spasmi come un foglio

E voglio scendere e scendendo sfoderarmi
chiusa nel calore del tuo grande guscio
voglio regalarti tutti i miei vent’anni.
J. G.



martedì 10 febbraio 2015

Le Interviste: "Colpevole di essere nata Istriana"

A partire dalla seconda guerra mondiale, e negli anni a seguire sino al 1960, una diaspora forzata coinvolse un numero di italiani ancora non precisamente identificabile. Dai territori istriani, dal Quarnaro e dalla Dalmazia, superarono il nuovo confine Jugoslavo per rientrare in Italia, speranzosi di trovare un nuovo inizio fuggendo dalle sevizie comuniste dell'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito.
I numeri riguardanti il genocidio sono stati a lungo e, probabilmente sempre lo saranno, incerti per la natura del suo svolgimento. Persone di ogni età e sesso venivano deportate dai soldati titini durante la notte, trascinate tra la natura carsica, dove, legate in coppia con il filo spinato, venivano gettate nelle foibe, a morte certa. Al contempo, molti altri seguirono il destino che accomuna le vittime di ogni genocidio, andando in contro ai campi di lavoro forzato o alle prigioni militari.
Quella che segue, è la preziosa testimonianza diretta di Angela Gripari, più che un monologo, è un fiume di parole di una reduce dell'esodo istriano-dalmata combattente per natura. O per necessità.



L’Istria la conoscete, perlomeno sulla carta geografica, è un triangolo rovesciato, però per me ha la forma di un cuore di circa 5000 km. [..]
Inizia così l’esodo abbandono della terra dei padri dei morti delle chiese della case per coltivare gli ideali di patria e religione ricordo l’oltraggio subito dalla bandiera da un gruppo di scalmanati slavi che dopo averla ammainata ne fecero scempio sentimmo di essere rimasti senza patria e l’esilio era l’unica via obbligata.
L’Istria è stata liberata dai tedeschi, malgrado qualcuno non ci creda. Dopo l’8 settembre son venuti giù dall’interno dell’Istria, con la misfatta dell’esercito italiano, gli Slavi ed hanno in cominciato con foibe, uccisioni, fucilazione, deportazioni, ed eravamo rimasta in balia di questa gentaglia, di questi partigiani comunisti di Tito, se non che, per fortuna, i primi d’ottobre del 43, l’Istria è stata aiutata dal SS. Noi siamo stati liberati. Le scaramucce avvenivano nelle campagne, questo era logico, se qualcuno moriva… Moriva, insomma si sparavano fra loro, ma noi nelle città siamo stati bene […] avevamo dei bombordamenti, soprattutto a Parenzo, perché venivano a caricare la bausite. […]
Loro di Tito venivano a chiamarci, soprattutto noi diplomati, di una certa categoria, in casa con i fucile per andargli a pulire le sale da ballo, per lavargli la biancheria, per attaccare i manifesti anti italiani per la strada. Sono venuti un giorno anche da me, io ho detto <<No, avete portato la libertà ed io sono libera di non venire>> lui dice <<Parentini, tutti fascisti![…]>>. In un primo momento avevo lo spirito forte, poi ho preso paura. Allora sono andata dal mio medico e gli ho detto <<Senta, o mi spacco il braccio o me lo mette in gesso prima che io me lo rompa da me!>> mi dice <<No, senti, abbi pazienza Angelina mia, ci penso io.>>, allora mi ha fatto una guaina di gesso che io mettevo quando uscivo di casa o quando sapevo che veniva qualcuno. L’avevo sul braccio destro e dicevo <<Abbi pazienza, ho il
braccio rotto, non posso venire!>>
Insomma una notte, perché facevano sempre di notte, sento battere alla porta. Hanno preso mio padre e gli hanno detto <<Vieni un momentino al comando, poi tra un paio d’ore torni a casa>> cosa che era risaputa, dicevano sempre così. Di fronte a gente armata uno ci andava, per forza. L’hanno portato in un castello lì vicino Parenzo, prigioniero. Allora sono andata in cerca di papà. Poi un giorno, senza dir niente, hanno caricato queste persone su una barca a motore e noi abbiamo cercato d sapere dove li portavano. Poi, dopo girando da un comando a quell’altro, abbiamo saputo che li hanno portati a Rovigno. Allora poi siamo corsi io e un’altra signora che, era… gli avevano preso il marito, li avevano chiusi in una prigione che, per fortuna, era mezza sotterranea e mezza fuori, e allora lì gli parlavamo. Poi un giorno non c’erano, più allora io sono andato al comando a Pola e sono andata lì per sapere dove avevano portato sta gente. Un po’ con le belle un po’ con le brutte, perché io ero così, non mi risparmiavo, mi hann detto che li hanno portati in Arsia. Con mio papà, per fortuna, diciamo un po’ per fortuna un po’ per sfortuna, hanno preso anche un ragazzo che era mio amico e li hanno messi vicini di branda, e questo mio compagno di scuola che era in prigione non si è mai più saputo niente di lui. Un giorno sono venuti a chiamarlo i soldati di Tito e dice <<Vieni che devono farti il processo>> e (lui) dice a mio papà <<Signor Checco>>, mio padre si chiamava Francesco, <<Preghi per me>>[…]. E’ andato via e nessuno ha più saputo niente di lui, se l’hanno ammazzato se l’hanno buttato in foiba, insomma non si sa. E dopo che buttavano questa gente nelle foibe loro facevano i balli, facevano i festini fuori dalla foiba, come felicità che avevano eliminato questi. E li legavano con il ferro spinato con le mani dietro la schiena a due a due li portavano sul ciglio, così il morto portava giù i vivo. E anche per settimane si sentivano pianti e strilli. […]
Allora io ho cercato di andare ad Albona sono andata lì e per fortuna c’ erano alcune persone italiane che mi hanno ospitato lì ed io di giorno cercavo di andare a vedere papà per dargli un sostegno morale insomma a quest’uomo. Allora una signora mi fa <<Vieni vieni, io ho la mia cantina che ha la botola che va sulle prigioni dove c’è lo scolo per l’aria>>, loro mandavano gli uomini a passeggiare nel cortile, nell’ora d’aria, dove cera questa botola con la griglia. Allora io andavo nella botola di questa signora e parlavo con mio papà, si metteva lì e scambiavamo due parole. […] Poi ho saputo che era arrivato un giudice slavo veramente bravo, allora io sono andata a parlare con questo giudice e gliene ho dette un po’ belle, un po’ brutte, come capita quando si è eccitati, dico <<Senta, ma anche lei ha una figlia? E se un domani a lei accadesse qualche cosa, che direbbe sua figlia?>> allora (lui) dice << Lei mi faccia avere una dichiarazione da uno del suo paese che non è vero che suo papà sia andato a dare delle pedate a dei partigiani comunisti morti che avevano esposto lì in piazza e io lo libero>>. Ho trovato la signora che mi ha fatto questa dichiarazione e gli hanno fatto un processo, ecco, regolare più o meno. […] Poi il giudice dice <<Allora se vuole che io glielo dia a casa deve portare il perdono scritto dei figli e dei fratelli di questo signore che hanno ucciso>>. Io li conoscevo perché son gente fuori dalla campagna di Parenzo, allora sono andata alla ricerca di uno di questi qua e gli ho detto <<Senti, tu mio papà lo conosci da quando eri piccolo, ti pare che mio papà possa fare una cosa del genere? Il giudice mi chiede il tuo perdono per questo>>. Allora un po’ ha tracagnato e poi me l’ha fatto, così ho portato anche il perdono ed io ho portato mio papà a casa. Poi abbiam saputo che mio papà lo volevano riprendere, insomma imprigionarlo ed è scappato fino a non so che punto a piedi poi ha trovato una corriere ed è andato a Trieste, insomma stava con dei parenti lì a Trieste. Io volevo andarlo a trovare […] poi non si poteva scrivere perché c’era la censura […]. Allora visto che io dovevo andare, delle persone mi hanno dato delle lettere e avevo anche dei soldi da portare a Trieste, fatto sta che o hanno fatto la spia o non si sa, comunque quando stavo a metà porto con una barca a remi, sono venuti con un motoscafo, mi hanno presa e mi hanno portata in prigione. Allora durante il tragitto, tutte le lettere le ho prese e le ho buttate in mare […] e i soldi li ho messi nel taschino della camicetta. Quella sera parlavano di portarci fuori, ed ero giovane allora, e con tutte queste ragazze che venivano malmenate, che venivano prese, sverginate avevo una paura boia. Quella sera è venuto un mio compagno di scuola che era diventato con la stella rossa, partigiano comunista di Tito. Allora dice << Se hai dei soldi dammeli, io li metto qui nel casse, domani te li rendo>> io gli ho detto <<Bhè senti, in prigione ladri non ci sono, è inutile che tu li tieni un paio d’ore, lasciameli>>, me li ha lasciati, dice <<Allora che facciamo? >>
ed io <<Senti, non so che dirti, io andrei a casa perché c’ho sonno.>> e lui << E’ ma hai trasgredito alla legge>><<Ma non mi davate il permesso, dovevo andare a Trieste>>. Niente mi hanno lasciato lì in prigione tutta la notte ed al mattino, come un grande delinquente, uno col fucile davanti, uno col fucile uno col fucile di dietro, mi hanno portata in tribunale. In tribunale c’erano tutti questi slavi, insomma, così … Però c’era anche questo mio compagno di scuola. Mi fanno il processo, che io ho voluto trasgredire alle leggi, che sono una reazionaria, che tira che molla … E poi questo ragazzo mi fa <<Ti ricordi che eri capo centuria della g?>> <<Certo che mi ricordo, ero capo centuria della g, però a scuola ci venivi anche tu, e alle adunate, quand’eran le feste, andavamo insieme vestiti in divisa, ti ricordi?!>>, allora lui è rimasto … Perché forse non pensava che io avessi il coraggio di dirglielo. E allora dice << Bhé, sai, è troppo comodo mandarti a casa così>> dico <<Datemi una multa >>, io sapevo che avevano bisogno di soldi. Allora vabbè, tutto sommato mi hanno dato una multa, ho pagato la multa.
[…] Noi andavamo sempre vestiti in bianco rosso e verde, potevamo usare la bandiera italiana però bisognava la stella rossa in mezzo. Ci vestivamo sempre così! Magari i lacci delle scarpe bianchi, le calze, i calzettoni rossi , una gonna verde. Insomma, bianco rosso e verde: sempre! Io avevo una cintura, che mi ero fatta quando ero giovane, bianca rossa e blu perché allora mia andava bene … l’ho presa e l’ho bruciata perché era bianca rossa e blu come la bandiera slava!
[…] Quando andavamo fuori la mattina avevamo tre spie, per vedere di cosa parlavamo, dove andavamo e con chi andavamo. Una mattina io mi sono incontrata con tre amiche così per fare un giro, perché non si poteva mica sempre stare a casa! Allora si avvicinano questi tre figuri, si avvicinano, si mettono un po’ lontanino, ma insomma sai, in modo che potessero sentire, poi noi veneti abbiamo il discorso sempre un po’ forte. Allora noi per dispetto ci siamo messe a parlare di moda, cosa che non si aveva neanche i vestiti da mettersi quasi. Allora io mi volto e gli dico <<Senti ma perché sei così lontano? Vieni qui vicino, fai con noi il discorso e almeno senti, senti meglio quello che diciamo!>>, e quindi se ne sono andati, ma noi avevamo sempre qualcuno che veniva dietro per controllarci.
[…] Del mio paese siamo venuti tutti via, tutti in Italia […] ma il triste è una cosa, che quando, non a tutti per fortuna, a me no, dico sinceramente, ma dei miei conoscenti, quando il treno di questi profughi partiva da Trieste e li mandavo tanto pere dire, magari a Bari, a Venezia, dico Venezia, e Bologna, piombavano i vagoni e non gli davano neanche un bicchiere d’acqua perché dicevano <<Siete fascisti, cosa volete, tornate nella vostra terra!>> e questo è stato triste. Purtroppo gli italiani ci hanno accolto un po’ male, abbiamo pensato di trovare una mamma, abbiamo trovato una matrigna. Lo devo dire con dolor di cuore. Io sono italiana dal primo capello all’ultima unghia del piede, però devo dire che è stata dura insomma.
[…] Lasciamo questi brani di storia ai giovani perché seguano degli ideali di libertà e di pace, ricordando loro che decine e decine di migliaia di giovani si è perduta nel dramma della guerra e per noi nel dramma dell’esilio. Ricordino e rendano omaggio ai migliaia di Italia che hanno conosciuto la morte nelle tenebre degli abissi, in numerose foibe, senza una croce, senza un nome, senza un fiore. Fummo per sei secoli con Roma, per cinque secoli in Istria sventolò il gonfalone di San Marco, non sarà violenza straniera ad impedire le nostre nobili pietre di testimoniare la cultura e la civiltà della nostra Italia.”

Ho ascoltato il grido silenzioso di una donna, in memoria di ciò che ha vissuto quando ancora donna non era. Di quei giorni di prigionia, la stessa vissuta da suo padre, da centinaia di genitori e figli.
Ho osservato il pianto privo di lacrime di una donna in memoria di ciò che ha vissuto quando ancora donna non era. Della tragedia istriana, delle Foibe e di coloro che hanno perso la vita difendendo i propri ideali e la propria patria. Di uomini, donne, bambini, tutti innocenti, che si sono condannati ad un esilio autonomo e allo stesso tempo forzato pur di non rinnegare le proprie origini italiane. L'Italia amata madre, mostratasi matrigna.
Fiume, Pola, Parenzo, Trieste luoghi in cui ancora si respira la malinconia, la tristezza, la rabbia, l’odio, la vergogna, la paura di un popolo debole politicamente, ma forte d’animo.
L’esodo istriano dalmata una realtà scomoda ad ogni fazione politica, una realtà costretta al silenzio, nascosta nella natura carsica come i corpi della sua violenza.
L'Italia alza la voce ogni 10 febbraio, per chinare il capo al ricordo delle vittime. Per creare una coscienza storico-sociale. Perché tutto ciò rimanga impresso nella memoria di tutti e di ciascuno. Per riempire i libri fino a pochi anni fa bianchi di quel ricordo.


Serena Mauriello


Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata su http://www.talentonellastoria.com/

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