mercoledì 24 febbraio 2016

[Dante e l'Aldilà #1] - La "Divina Commedia" tra realtà e finzione

Dante e la rappresentazione dell'Aldilà tra tradizione e innovazione. Etimologie, leggende e studi per iniziare un percorso all'interno della Commedia e scoprirne la sua verità attraverso i personaggi che la compongono.


La Divina Commedia illustrata da Salavador Dalì

Nella letteratura popolare e in quella più erudita, gli uomini hanno cercato costantemente di raccontare l’aldilà. La Commedia di Dante costituisce una delle rappresentazioni del mondo dei morti più intense, dettagliate e strutturate mai ideate. Il suo immediato successo ha condizionato per sempre l’immaginario comune della vita ultraterrena, legandolo però a un passato da cui non può essere scardinato. All’interno della Commedia confluisce una tradizione visionaria di seimila anni di cui l’autore è al contempo consapevole e inconsapevole.
La scoperta di moltissimi manoscritti, che si trattasse di singole visioni o di assemblaggi in un corpus più complesso, ha portato gli studiosi del XIX secolo a vedere l’opera dantesca come il culmine di una tradizione ininterrotta[1]. Negli scritti di Ozanam, tra il 1838 e il 1855, non è difficile imbattersi nella teorizzazione della funzione unificante e aggregante dell’opera poetica dell’Alighieri: «o io mi sto sbagliando, oppure si sta formando il quadro di una grande epica, ne viene tratteggiato il disegno, le sue immagini prendono colore; ma come le immagini dei vetri colorati gotici, c’era bisogno del fuoco per fonderle insieme»[2].
Tuttavia tradere è anche l’etimo di tradimento, e conseguentemente il viaggio dantesco ultraterreno si colora sì di tradizione, ma anche di trasgressività. Dante non disse mai che il suo viaggio non fu vero, piuttosto il figlio Pietro, quando postumamente il padre fu tacciato di eresia, si trovò costretto a difenderlo mettendo in chiaro che si era trattato solo di un sogno. Facendo di nuovo ricorso a un’etimologia, possiamo affermare che il viaggio intrapreso da Dante è sì vero, ma nell’ accezione propriamente medievale di poetare. Una delle etimologie proposte per poesia è dal greco poiesis nel senso del fingo, fingis latino. Si tratta di creare qualcosa di artificioso, la poesia è il vero del poeta, il vero attraverso il filtro composto dal poeta stesso. Verum e fictum, realtà e finzione, hanno un confine molto labile nella cultura medievale, e non bisogna dimenticare che proprio di quella cultura è figlia la Commedia. Questo è il mondo in cui può avvenire una visio in somnis, in cui ai primi chiarori dell’alba i sogni si fanno più veri e collidono con il mondo sensibile. Dante intraprende un viaggio e lo fa fisicamente, con il proprio corpo e la propria carne. L’autore è incredulo allo stesso modo dei suoi lettori, e appena intrapreso il suo cammino, non appena la sua guida Virgilio lo introduce al futuro che l’aspetta, risponde di non esser degno e sottolinea «io non Enea, io non Paulo sono» (Inf.,III, 32[3]). È un verso nodale questo, in cui si presenta l’unico riferimento (ovvero alla visione di San Paolo) dell’intera Commedia alla tradizione di cui Ozanam parlava. Allo stesso tempo però Dante compie un atto ancora più audace, Paolo è equiparato a Enea in un endecasillabo composto di due porzioni identiche e sorrette dallo stesso verbo. Un eroe e un santo trattati nel medesimo modo: si tratta di realtà, di storia. E solo qualche verso più avanti ci rendiamo conto di quanto Dante creda alla verità sensibile del suo viaggio quando dubita di esser pazzo, «temo che la venuta non sia folle»[4] (Inf.,III, 35).
La katabasi, la discesa infernale dantesca si connota di un realismo minuzioso nei suoi personaggi e nella sua topografia. Dall’XI secolo nella tradizione si incontrano nomi e volti reali, ma in Dante ogni personaggio è persona: oltre a un nome, ha un ritratto ben definito come quello di un uomo in carne e ossa nonostante i peccanti – come poi i purganti e i beati – siano fatti della sostanza dell’anima. I personaggi danteschi, insomma, sono presentati come fossero vivi e nella storia (non solo esegetica) sono attivi e attivanti. Sono trecento le persone che abitano l’aldilà dantesco, di esse una sola non era ancora morta al momento della stesura dell’opera. Si tratta di Branca Doria colpevole di aver ucciso il suocero Michel Zanche (che Dante incontra tra i barattieri nel dodicesimo canto dell’Inferno) a tradimento nel corso di un banchetto. Una leggenda ci lascia immaginare quale influenza potesse avere la Commedia nella sua contemporaneità e immediata ricezione: racconta Umberto Foglietta che Doria, una volta letti i versi a lui dedicati[5], abbia poi mandato i suoi sgherri a malmenare Dante in un vicolo di Genova. Se da un lato si tratta solo di un aneddoto che non trova nessun’altra conferma e che può essere tranquillamente inserito all’interno delle serie di distorsioni e amplificazioni della vita dantesca ad opera del secondo gruppo di antichi biografi di Dante[6], dall’altro ci fa capire quanto la Commedia sia un vero e proprio fenomeno socio-culturale alla sua nascita. Con Dante si plasma «ciò che l’antichità europea aveva formato in modo totalmente diverso, e il Medioevo non aveva mai formato. L’uomo, non nella lontana figura della leggenda, né nella formulazione astratta o aneddotica del tipo morale, ma quello noto, vivo, legato alla storia, all’individuo, dato nella sua unità e completezza»[7].

Serena Mauriello




[1] Cfr. Allison Morgan, Dante and the Medieval Other World, 1990; ed. it. Dante e l’aldilà medievale, trad. di Luca Marcozzi, Roma, Salerno editrice, 2012.
[2] Frédéric Ozanam, Des sources poétiques de la ‘Divine Comédie’, p. 362; in Id., Les Poètes franciscains en Itali eau treizième siècle, pp. 307-416; ed it. I poeti francescani in Italia nel secolo decimoterzo, trad. di Pietro Fanfani, Prato, Alberghetti, 1846.
[3] Per le citazioni dalla Commedia si fa riferimento all’edizione Petrocchi.
[4] In questo punto Dante si riferisce ad Ulisse di cui possiede culturalmente un’interpretazione distorta, per un maggiore approfondimento della tematica si rimanda a Gaetano Munno, L’Ulisse omerico e l’Ulisse dantesco. Da Omero a Dante, Roma, Tipografia consorzio nazionale, 1949.
[5] Inf XXXIII, 135-147.
[6] Cfr. Angelo Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimostesto, Milano, Vallardi, 1904.
[7] Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, p.157.

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