Dante e la rappresentazione dell'Aldilà tra tradizione e innovazione. Etimologie, leggende e studi per iniziare un percorso all'interno della Commedia e scoprirne la sua verità attraverso i personaggi che la compongono.
La Divina Commedia illustrata da Salavador Dalì |
Nella
letteratura popolare e in quella più erudita, gli uomini hanno cercato
costantemente di raccontare l’aldilà. La Commedia
di Dante costituisce una delle rappresentazioni del mondo dei morti più
intense, dettagliate e strutturate mai ideate. Il suo immediato successo ha
condizionato per sempre l’immaginario comune della vita ultraterrena, legandolo
però a un passato da cui non può essere scardinato. All’interno della Commedia confluisce una tradizione
visionaria di seimila anni di cui l’autore è al contempo consapevole e
inconsapevole.
La scoperta di moltissimi manoscritti, che si trattasse di singole visioni o di assemblaggi in un corpus più complesso, ha portato gli studiosi del XIX secolo a vedere l’opera dantesca come il culmine di una tradizione ininterrotta[1]. Negli scritti di Ozanam, tra il 1838 e il 1855, non è difficile imbattersi nella teorizzazione della funzione unificante e aggregante dell’opera poetica dell’Alighieri: «o io mi sto sbagliando, oppure si sta formando il quadro di una grande epica, ne viene tratteggiato il disegno, le sue immagini prendono colore; ma come le immagini dei vetri colorati gotici, c’era bisogno del fuoco per fonderle insieme»[2].
La scoperta di moltissimi manoscritti, che si trattasse di singole visioni o di assemblaggi in un corpus più complesso, ha portato gli studiosi del XIX secolo a vedere l’opera dantesca come il culmine di una tradizione ininterrotta[1]. Negli scritti di Ozanam, tra il 1838 e il 1855, non è difficile imbattersi nella teorizzazione della funzione unificante e aggregante dell’opera poetica dell’Alighieri: «o io mi sto sbagliando, oppure si sta formando il quadro di una grande epica, ne viene tratteggiato il disegno, le sue immagini prendono colore; ma come le immagini dei vetri colorati gotici, c’era bisogno del fuoco per fonderle insieme»[2].
Tuttavia
tradere è anche l’etimo di
tradimento, e conseguentemente il viaggio dantesco ultraterreno si colora sì di
tradizione, ma anche di trasgressività. Dante non disse mai che il suo viaggio
non fu vero, piuttosto il figlio Pietro, quando postumamente il padre fu
tacciato di eresia, si trovò costretto a difenderlo mettendo in chiaro che si
era trattato solo di un sogno. Facendo di nuovo ricorso a un’etimologia,
possiamo affermare che il viaggio intrapreso da Dante è sì vero, ma nell’
accezione propriamente medievale di poetare. Una delle etimologie proposte per poesia è dal greco poiesis nel senso del fingo, fingis
latino. Si tratta di creare qualcosa di artificioso, la poesia è il vero del
poeta, il vero attraverso il filtro composto dal poeta stesso. Verum e fictum, realtà e finzione, hanno un confine molto labile nella cultura
medievale, e non bisogna dimenticare che proprio di quella cultura è figlia la Commedia.
Questo è il mondo in cui può avvenire una visio
in somnis, in cui ai primi chiarori dell’alba i sogni si fanno più veri e
collidono con il mondo sensibile. Dante intraprende un viaggio e lo fa
fisicamente, con il proprio corpo e la propria carne. L’autore è incredulo allo
stesso modo dei suoi lettori, e appena intrapreso il suo cammino, non appena la
sua guida Virgilio lo introduce al futuro che l’aspetta, risponde di non esser degno e sottolinea «io non Enea,
io non Paulo sono» (Inf.,III, 32[3]).
È un verso nodale questo, in cui si presenta l’unico riferimento (ovvero alla
visione di San Paolo) dell’intera Commedia
alla tradizione di cui Ozanam parlava. Allo stesso tempo però Dante compie
un atto ancora più audace, Paolo è equiparato a Enea in un endecasillabo
composto di due porzioni identiche e sorrette dallo stesso verbo. Un eroe e un
santo trattati nel medesimo modo: si tratta di realtà, di storia. E
solo qualche verso più avanti ci rendiamo conto di quanto Dante creda alla
verità sensibile del suo viaggio quando dubita di esser pazzo, «temo che la
venuta non sia folle»[4]
(Inf.,III, 35).
La
katabasi, la discesa infernale dantesca si connota di un realismo minuzioso nei
suoi personaggi e nella sua topografia. Dall’XI secolo nella tradizione si
incontrano nomi e volti reali, ma in Dante ogni personaggio è persona: oltre a
un nome, ha un ritratto ben definito come quello di un uomo in carne e ossa
nonostante i peccanti – come poi i purganti e i beati – siano fatti della
sostanza dell’anima. I personaggi danteschi, insomma, sono presentati come
fossero vivi e nella storia (non solo esegetica) sono attivi e attivanti. Sono
trecento le persone che abitano l’aldilà dantesco, di esse una sola non era
ancora morta al momento della stesura dell’opera. Si tratta di Branca Doria
colpevole di aver ucciso il suocero Michel Zanche (che Dante incontra tra i
barattieri nel dodicesimo canto dell’Inferno)
a tradimento nel corso di un banchetto. Una leggenda ci lascia immaginare quale
influenza potesse avere la Commedia nella
sua contemporaneità e immediata ricezione: racconta Umberto Foglietta che
Doria, una volta letti i versi a lui dedicati[5],
abbia poi mandato i suoi sgherri a malmenare Dante in un vicolo di Genova. Se
da un lato si tratta solo di un aneddoto che non trova nessun’altra conferma e
che può essere tranquillamente inserito all’interno delle serie di
distorsioni e amplificazioni della vita dantesca ad opera del secondo gruppo di antichi biografi di Dante[6],
dall’altro ci fa capire quanto la Commedia
sia un vero e proprio fenomeno socio-culturale alla sua nascita. Con Dante
si plasma «ciò che l’antichità europea aveva formato in modo totalmente
diverso, e il Medioevo non aveva mai formato. L’uomo, non nella lontana figura
della leggenda, né nella formulazione astratta o aneddotica del tipo morale, ma
quello noto, vivo, legato alla storia, all’individuo, dato nella sua unità e
completezza»[7].
Serena Mauriello
[1] Cfr. Allison Morgan, Dante and the Medieval Other World,
1990; ed. it. Dante e l’aldilà medievale,
trad. di Luca Marcozzi, Roma, Salerno editrice, 2012.
[2] Frédéric Ozanam, Des sources poétiques de la ‘Divine Comédie’,
p. 362; in Id., Les Poètes franciscains
en Itali eau treizième siècle, pp. 307-416; ed it. I poeti francescani in Italia nel secolo decimoterzo, trad. di
Pietro Fanfani, Prato, Alberghetti, 1846.
[3] Per le citazioni dalla Commedia si fa riferimento all’edizione
Petrocchi.
[4] In questo punto Dante si
riferisce ad Ulisse di cui possiede culturalmente un’interpretazione distorta,
per un maggiore approfondimento della tematica si rimanda a Gaetano Munno, L’Ulisse omerico e l’Ulisse dantesco. Da
Omero a Dante, Roma, Tipografia consorzio nazionale, 1949.
[5] Inf XXXIII, 135-147.
[6] Cfr. Angelo Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio
scritte fino al secolo decimostesto, Milano, Vallardi, 1904.
[7] Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli,
1963, p.157.
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