lunedì 31 agosto 2015

[Poesia Femminista #1] - L'intima poesia di Carla Lonzi

« Il sesso femminile è la clitoride, il sesso maschile è il pene. La vagina è la cavità del corpo femminile che accoglie lo sperma dell'uomo e lo inoltra nell'utero affinché avvenga la fecondazione dell'ovulo. »
(Carla Lonzi, La donna vaginale e la donna clitoridea)

Per Carla Lonzi, la scoperta del femminismo rappresenta un punto di massima fioritura intellettuale: laureata in Lettere presso l’Università di Firenze, svolge per  quindici anni la professione di critica d’arte, ma sulla fine degli anni Sessanta la strada della lotta di genere si apre ai suoi occhi come quello che sembra essere un perfetto equilibrio tra il vendere il proprio corpo e il rinunciarvi, il percorso per “ritrovare una completezza, un’identità contro una civiltà maschile che l’aveva resa irraggiungibile”.
Così, nel 1970, dopo essere entrata in contatto con numerose altre intellettuali, fonda il gruppo  Rivolta Femminile” , e con esso il suo Manifesto: il testo è sintetico, di decise argomentazioni, vagamente visionario; tra le sue righe emergono per la prima volta tematiche come la centralità del corpo della donna, della sua sessualità, la necessità di sviluppare e rivendicare una soggettività femminile che si svincoli dalle richieste dell’immaginario maschile. La battaglia, a favore di una donna-soggetto che rifiuti il ruolo autoritario della mascolinità, crede fortemente nella pratica della scrittura intesa come ri scrittura della coscienza femminile, e va a completarsi attraverso la fondazione di una piccola casa editrice da cui prenderanno vita numerose importanti pubblicazioni.
E’ a partire da questo momento che Carla Lonzi inizia ad affermarsi come una delle più emblematiche figure del femminismo italiano: Sputiamo su Hegel (1970) e La donna clitoridea e la donna vaginale (1971), ci regalano una primissima, fervente dimensione del suo pensiero femminista; qui emerge con forza quella presa di coscienza di fronte alla propria situazione di soggetto femmminile, la necessità di estromettere fuori di sé tutto lo sdegno che lei stessa provava nei confronti della “sottomissione e inespressività in cui viveva la donna”.

Nei suoi testi è al centro il lavoro su una dimensione fortemente interiore, soggettiva, che prende le mosse dalla costante e inevitabile pratica dell’autocoscienza;  Lonzi si dichiara anti-ideologica, i suoi lavori non hanno l’intenzione di modulare gli sviluppi della nascente ondata femminista, e lontano dall’esprimere punti teorici segnano il punto di partenza verso la crescente ricostruzione di una soggettività femminile differente, che si scardini dagli stereotipi culturalmente imposti: per la prima volta un percorso personale si fa anche politico.
Non è dunque difficile comprendere come la vita politica e filosofica di Carla Lonzi sia stata fortemente intrecciata a un’intima, intensa pratica di scrittura che la guidasse nel suo percorso interiore: Lonzi scriveva meditazioni, lettere e diari su tutto quanto riguardasse la sua vita. E nella prima fase della sua età adulta si adoperò anche della poesia come strumento di conoscenza di sé.
Dai 27 ai 32 anni, la scrittura in versi rappresenta per Lonzi un’intimissima bussola, fulcro di ricerca esistenziale e personale in cui costruire – e decostruire – se stessa alla ricerca di un’identità profonda e autentica. Lonzi non si riconoscerà mai nel ruolo di poetessa: in E’ già lotta (1977) scrive “io attraverso le poesie cercavo uno sbocco nella realtà”. E difatti le sue poesie non vennero mai date alle stampe prima della sua morte: il mondo non era pronto al suo pensiero, non l’aspettava. E quelli di Carla Lonzi furono versi incompresi, sia dai numerosi artisti a lei vicini, sia dalle altre femministe con cui operò lungo il corso della sua militanza.
La raccolta “Scacco Ragionato” esce nel 1985, a due anni dalla sua morte. Curata dalla sorella Marta e dalla militante Anna Jaquinta, si apre con una nota: “E’ stato un pensiero costante di Carla Lonzi voler dare alle stampe la presente raccolta di poesie”.
I componimenti sono caratterizzati da un costante uso del presente: le riflessioni elaborate in Scacco Ragionato, infatti, saranno vive nell’autrice anche un decennio dopo, quando avrà messo da parte la poesia per dedicarsi totalmente alla battaglia politica.
In Carla Lonzi, dunque, non esploriamo una dimensione dello scrivere volta all’acquisizione di un “ruolo” nella scena artistica; la sua intima poesia si chiude al confronto:  è un incubatore di pensiero, un costante tentativo di dichiararsi per quello che si è, fuori da ogni istituzione e libera da ogni ruolo; e fa parte di quelle tracce di sé che le permetteranno di dare vita al suo ruolo più emblematico e importante: quello di femminista.



Scacco ragionato

Così quando in allarme
sempre più in allarme
a un’occhiata scopri
quantità di situazioni
interrogative e non c’è
oggetto o immagine o suono
o niente di niente
che non sembri messo lì
un istante in atteggiamento
ermetico e provocatorio
come chi non lascerà
la posa se non hai sciolto
l’enigma della neutrale
familiarità di sempre
e l’asciugamano l’albero
la ringhiera con fissità
inamovibile sotto sguardi
pazienti e scetticamente
ragionevoli sbarrano
ogni centimetro in cui
distendere l’indiscussa
superiorità, scatta
lo sportello segreto,
l’antica impotenza
di chiocciola germogliante
nel buio, all’aggressione
che pretende spargere
oscuro disfattismo
nel corso dei tuoi pensieri
e anzi a uno a uno
metterli in scacco
con voce di pura cosa
dopo lunga attesa
staccata dal silenzio.

(Roma, 10 luglio 1958)

Migrazione 
Avverrà che all’urto
di una ferita precisa l’enigma
che si nasconde si sciolga in ariosa
migrazione del sangue nuvola
obbediente al richiamo di situazioni
incolmabili sulla scia migratoria
di penne iridate docili
a voli di effusione nella felicità
vorticosa che segue la spezzatura
di una vertebra o di un muscolo
rigidamente nascosto l’andatura
innocente di chi si tiene
equidistante dal nulla.

(Milano, 23 novembre 1961)


Ascolta: non può essere
perduta questa parola
come non può essere
perduta la mia anima
in un angolo del creato.
… Tu mi dici invece
che tutto può andar
perduto e dimenticato.

(Firenze, ottobre 1953)

A cura di Julia C.

Bibliografia:
Carla Lonzi, Scacco ragionato. Poesie dal ’58 al ’63, Scritti di Rivolta Femminile, Prototipi, Milano, 1985.
Carla Lonzi, Taci, anzi parla, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1978.
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, et al Edizioni, Milano, 2010.
Sitografia:







giovedì 20 agosto 2015

[Poeticamente Viaggiando #4] - Il Giappone onirico di Corrado Govoni



«Gli pare che la bellezza sia fare un
 
inventario 
del mondo che non finisca più come d'uno che non si sazi»
Giovanni Boine riguardo Corrado Govoni

Agli occhi dei poeti occidentali, l'Oriente è sempre stato
un luogo celato in un'ombra di mistero presto coloratosi di sfumature oniriche. Nel Govoni de Le Fiale (1903), quel mondo prende vita e si insidia nelle rime che quando non sono per lo più facili o spesso identiche, si arricchiscono di esotismi linguistici dalla musicalità deliziosa e raffinata1. Le immagini fiabesche dalle delicate colorazioni sono quelle di un immoto hortus conclusus «del paesaggio minimo, fermo e totalizzante, nel quale un immaginario floreale – decò fino all'estenuazione – cristallizza la sintassi del sonetto»2. È l'eredità d'annunziana, dove l'esotico si anima del fascino dello sconosciuto.
Ventagli Giapponesi è tutto questo, è il sogno di una terra lontana e irraggiungibile, ma dall'immagine così attraente da riuscire a figurarsi davanti ai propri occhi tramite gli endecasillabi imperfetti di un sonetto tutto italiano.




Corrado Govoni, Ventagli Giapponesi: Paesaggio

La casina si specchia nel laghetto,
pieno d'iris, da l'onde di crepone,
tutta chiusa nel serico castone
d'un giardino fragante di mughetto.

Il cielo dentro l'acque un aspetto
assume di maiolica lampone;
e l'alba esprime un'incoronazione
di rose mattinali dal suo letto.

Sul limitare siede una musmè
trapuntando d'insetti un paravento
e d'una qualche rara calcedonia:

vicino, tra le lacche e i netzkè,
rosseggia sul polito pavimento,
in un vaso giallastro una peonia.




A cura di Serena Mauriello


1Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978.
2Stefano Colangelo, Haiku ed altre piccole tempeste, in Culture allo specchio. Arte, letteratura, spettacolo e società tra il Giappone e l'Europa, a cura di Wada Tadahiko, Stefano Colangelo, Bologna, Emil di Odoya, 2012, pp. 116-131.

sabato 15 agosto 2015

TANTI AUGURI Tutùm! Trecentosessantacinque giorni, qualche estiva considerazione

Tanti auguri Tutùm! 



Sapere che è passato un anno dal poco attento esordio di questo blog è elettrizzante. 
Quel caldo 15 agosto di trecentosessantacinque giorni fa si entrava in scena con poche pretese e qualche poesiola, e nulla si sapeva di quello che sarebbe successo pressappoco. 
Ma non ci volle molto a succedere che ci incontrassimo tutti insieme: improvvisamente come uniti da una strana energia magnetica.
E ci ritrovammo ad incrociarci, scontrarci, confrontarci sotto le note della poesia; a dare vita a un flusso ricchissimo di lavori e informazioni culturali; ad accogliere nuovi autori e introdurre forme di visione del mondo talvolta analoghe, altre volte differenti dalle nostre. 
Tutùm, che nasceva per essere il balcone di un battito di cuore, mi sembra oggi un giardino più maturo, che vuole crescere e che contempla con umile ambizione il suo orizzonte, sperando di poter accedere un giorno alle luci del bosco.

Con tanto caldo nell'aria (!!) e infinta gioia nel cuore, 
grazie a tutti voi: compagni scrittori, presenti lettori.

mercoledì 12 agosto 2015

[Poeticamente viaggiando #3] - "Un poeta a New York", Federico Garcia Lorca

"La luce del poeta è la contraddizione"
 Federico Garcìa Lorca
Era il 26 giugno del 1929 quando Federico Garcìa  
Lorca mise piede per la prima volta a New York.

Dalla sua terra oltre oceano, la rossastra Andalusia dagli echi arabo-gitani, il poeta era arrivato nel nuovo continente per studiare alla Columbia University di New York. La sua ultima raccolta, Romancero Gitano (1928), aveva sostenuto difficilmente - come la gran parte dei best-seller - le dure accuse della critica. La sua storia d'amore impossibile con Salvador Dalì era ormai giunta al termine dopo gli infiniti ostacoli che l'avevano tormentata. Perfino il suo amante, Emilio Aladren, l'aveva lasciato per una donna. Quando Federico Garcìa Lorca seppe che il professore amico di famiglia Fernando de los Rios sarebbe andato alla Columbia University quell'estate, comprese che l'unica soluzione al sentimento mortifero che lo accompagnava era fuggire nel nuovo continente. Chiese al padre il permesso, si iscrisse alla Columbia University per migliorare il suo inglese. 
Quel percorso di studi non giunse mai al termine, ma a New York Federico Garcia Lorca trovò ben altro.
La città divenne la metafora perfetta della sua condizione interiore. New York, con la sua architettura extraumana, con il suo ritmo furioso, con la sua geometria e la sua pena, era uno specchio perfetto di sé. Da questo connubio empatico nacquero le liriche di Poeta a New York (1929-1930), dove a dominare sono il surrealismo e la tortuosità. Ormai l'unico domani della metropoli è quello che affoga nel sangue, New York geme come i suoi poeti.


L'Aurora













L'aurora di New York ha 
quattro colonne di fango 
e un uragano di nere colombe 
che guazzano nelle acque putride. 
L'aurora di New York geme 
per le immense scale 
cercando nei cantoni 
balsami di angoscia disegnata. 
L'aurora arriva e nessuno l'accoglie nella sua bocca 
perché non c'è domani né speranza possibile. 
A volte il denaro in sciami furiosi 
trapassa e divora bambini abbandonati. 
I primi che escono sentono sulle loro ossa 
che non vi sara' paradiso né amori sfogliati; 
sanno che vanno a un fango di numeri e di leggi, 
a giuochi senz'arte, a sudori senza frutto. 
La luce è sepolta da catene e rumori 
in un'impudica sfida di scienza senza radici. 
Nei sobborghi c'è gente che vacilla insonne 
come appena uscita da un naufragio di sangue.


Rubrica a cura di Serena Mauriello

mercoledì 5 agosto 2015

[Poeticamente viaggiando #2] - Golan Haji, spirito curdo e penna di Siria

"La poesia si pone nei confronti della guerra come Perseo di fronte alla testa della Gorgone, così come la evoca Calvino nelle sue Lezioni Americane: perché il poeta non rimanga pietrificato dall'orrore con tutto il suo corpo o la poesia divenga incapace di dire, la scrittura deve guardare non la testa, ma i suoi riflessi nello scudo"...
Con queste parole Costanza Ferrini, fondatrice della casa editrice "Il Sirente", apre la raccolta "L'autunno, qui, è magico e immenso" del poeta curdo-siriano Golan Haji.

Haji è madrelingua curdo, ma scrive prevalentemente in arabo. Lavora come traduttore e medico patologo a Parigi, perché è stato costretto ad esiliarsi da Damasco nel 2011. Appartiene a quella minoranza a cui il regime ha negato il diritto alla propria lingua e cultura, e nella raccolta di cui noi oggi daremo un estratto ha descritto la Siria e i suoi dolori con quella che la Ferrini, nella prefazione, ha definito una "Contemporaneità antica. Egli descrive ciò che è dentro il suo tempo come se ne fosse al di fuori, rappresentando ciò che nella terra non è scalfito dalla temporalità".









"Sono un impavido curdo", diceva quando il camion l'ha investito alle due di notte:

Non ho visto il suo splendido viso,
all'inizio dello scorso novembre:
aveva le tigri bionde
del sole autunnale infilate tra i capelli,
una camicia color vecchia
cicatrice sulle spalle
e un cuore pallido di lattuga fresca tra i denti.
Ora non oso uscire. Ho le ossessioni
sparse ovunque come spie.
In questa quiete che avevo sempre atteso,
tra vecchie piante di pepe,
dietro fusti di cipresso,
ascolto il calar della sera e l'addensarsi
della notte intorno a me.
Freddo. Buio.
Le stelle brillano sopra il soffice muschio.


L'errore:

Ho perso la scommessa
ch'era persa in partenza.

Lo spirito non è mai stato un uccello
di cui puoi addentare l'uovo,
reso orfano nel comignolo
dal fantasma dell'infanzia.

Lo spirito non è mai stato
una farfalla con la peluria a puntini
a cui puoi dar la caccia tutte le volte che t'annoi,
Né una foglia che lasci seccare sul muro,
per poi calpestarla, se vuoi, col tacco.

Lo spirito è sangue mesto
che da sempre macchia le terre,
rosso vivo e silenzioso
come il rivolo della prima mestruazione.


Un soldato in casa di cura:

Gli ho chiesto tregua mentre m'invadevano
per tapparmi  la bocca con le cinture di cuoio,
sicché l'urlo m'è tornato in gola
distruggendo quel che mi restava da dire.
Mi svegliano le braccia anchilosate,
per quanto ci avevo dormito sopra,
e vedo tutti quelli che mi fissavano, poc'anzi.
L'aria viene lacerata,
come la mia bocca, ma non sento niente.
Fisso un unto nel bianco sporco,
che poi si trasforma in un occhio che mi fissa,
e ovunque guardi mi vedo moltiplicare.
Gli sguardi mi divorano,
mentre di me non rimane
che una pelle così sottile che,
se solo la sfiorassi, sparirei.
Io sono il pane degli invisibili.
Quanto mi terrorizzano gli occhi degli atterriti!
Ogni spaventato ne spaventa un altro.

Dalla raccolta "L'autunno, qui, è magico e immenso", di Golan Haji. (Casa editrice "Il Sirente", collana "altriarabi")


Rubrica a cura di Julia

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