mercoledì 29 aprile 2015

[Parlanno 'e Poesia #5] - Tommaso Gaeta, la poetica dell'amore


Tommaso Gaeta è il poeta di cui approfondiremo oggi la figura. Nato a Napoli nel 1833, soggiogato forse dal successo del fratello Francesco autore della raccolta Poesie d’amore, tenne a lungo nascosta la sua passione per la poesia e la canzone. 
Benedetto Croce ne esaltò la semplicità del linguaggio, la dignità classica. Il critico abruzzese riconosceva in lui una poetica dominata dal sentimento dell'amore dell'amore, dal rimpianto di qualcosa che non si possiede più. Francesco Gaeta era uno spirito tormentato, valga come esempio una quartina tratta da Sgomento:

Si, vi lascio vecchie mura
dove un po’ del cuore mio
con un tenero desio
attaccato resterà.

Francesco morì suicida a soli 48 anni, un Venerdì santo dopo i funerali della madre, lasciando un biglietto con scritto: «Mia dolce mamma, ti seguo!».
Tommaso, che fu Direttore provinciale delle Poste di Napoli, invogliato dal maestro Francesco Buongiovanni (autore di Lacreme napulitane ed altri successi) cominciò a produrre diverse canzoni con lo pseudonimo di Tullio Gentili fino a diventare, con Ernesto Murolo, il paroliere prediletto del grande Ernesto Tagliaferri. Solo pochi anni prima della sua dipartita si decise a pubblicare a suo nome una breve raccolta di sonetti dal titolo Sunettiata napulitana. Ebbe una bella e ricca prefazione di Pasquale Ruocco che esortava il Gaeta ad organizzare in una pubblicazione le sue raccolte di versi Passeggiate ottocentesche e Poeta bizzarro, di cui non si è avuto più notizia. Parimenti inedite sono rimaste le poesie destinate alla raccolta Tammurriata. Forse il poeta non ebbe il tempo di porvi mano e nessuno, poi, si è assunto questo compito. Un vero peccato perché, come avrete modo di vedere, il Gaeta era un gran bel poeta, leggero, arguto ed accattivante. Non a caso Ettore de Mura lo definì «il poeta della gentilezza e della grazia».
Per entrare ancora un po' più in contatto con la sua personalità, un gustoso aneddoto da cui traspare la bonomia del Gaeta raccontato da Giovanni de Caro nei suoi Aneddoti. Un giorno Tommaso, che aveva inviato un articolo al periodico «Roma» e voleva vedere se fosse stato pubblicato, pregò un usciere di andare a comprarne una copia. Poco dopo l’usciere gli disse «Non è uscito, ancora». Dopo una buona mezz'ora, glielo richiese ed ebbe identica risposta, ma, dalla strada, gli giunse la voce di uno strillone che gridava: «‘O Roma, ‘o Roma !». Seccato, il Gaeta disse «Ho capito, mo scendo e lo vado a comprare io !», e di rimando l’usciere «Visto che ve truvate, pigliatene na copia pure pe mme!»
Ed ora, dopo aver tratteggiato brevemente la figura ed il mondo in cui era vissuto il Gaeta, vi propongo alcuni suoi divertenti sonetti :




‘O grand’ommo

Quanno, â matina, ‘a nonna me vesteva
pe purtarme int’â villa a passià,
« Addio, miez’ommo !» patemo diceva,
redenno cu ‘a bonanema ‘e mammà.

A vintun’anne me venette ‘a freva,
che piglia tutt’’e ggiuvene ‘e spusà:
festine, abbracce, ‘o treno che parteva..
« Addio, bell’ommo !» me strllaje papà.

Mugierema era ‘nzista..e me murette.
Papà, doppo ll’esequie, suspiraje
e, zitto:« Addio, grand’ommo !» me dicette.

Quanno ‘a siconda vota me ‘nzuraje
e lle dette ‘a nutizia cu n’espresso,
« Addio, me rispunnette, piezz’’e fesso !!»


‘A gatta

‘A gatta… Sissignore, ‘a gatta è prena
( a essa pure ll’è venuto ‘o sfizio !)
e mo, ‘ncopp’â pultrona ‘e Matalena,
durmesse fin’ô juorno d’’o giudizio.

Cammina ‘ncopp’a ll’ova, chiena chiena,
comme stesse facenno n’esercizio..
“Fattella ‘ngrazia ‘e Dio chesta nuvena,
muscè ! Ll’hê visto che t’ha fatto ‘o vizio ?”

Dint’â casa ce sta nu serra serra..
Mògliema allucca, cu na scopa mmano :
“Nicò, chesta nce nguaja nu divano !”
I’ rido sazio e chella cchiù de mperra;
e ‘o neputino nuosto, nu gnastillo,
‘a sfruculèa : “ M’’o date nu muscillo ?”


Acqua passata

Signò, vuje me parite Baccalà :
parlate sempe e ve muvite assaje.
Na vota, si’, pe vvuje me ‘ncapricciaje
ma fuje na freva, che è passata già.

Ve vantate : “ ‘O vedite a chillu lla ?
pe nu ounto pe mme nun se sparaje
e s’i’ lle desse corda, nun sia maje !
fosse ancora capace ‘e s’appezzà !”

Site stata, però, troppo azzardosa,
cunsignanno a muglierema, ‘a ntrasatto,
‘e vierze che nu juorno v’aggio fatto.

Muglierema ha liggiuto tutto cosa,
po, m’ha guardato..e ha ditto, molla molla :
“ Tutta sta nziria, pe..nu cato ‘e colla !!”



Rubrica a cura di Romano Rizzo


martedì 28 aprile 2015

[Tutùm Narrativa #3] - "Quick, quick, ring the bell, ring the bell!" di Vincenzo Perez

Siamo al terzo appuntamento di Tutùm Narrativa e questa volta a prendere la penna in mano è Vincenzo Perez con un racconto londinese e un po' piccante...



Lavoravo ormai da un mese in quel ristorante ad Ealing, West London, quando ci andai la prima volta. In un ristorante di un iraniano che s'era innamorato dell'Italia, a tal punto da arricchirsi grazie ai piatti tipici del Bel Paese: lui, della lontana Teheran, chissà perché. Il locale, piccolo e discreto, era bazzicato perlopiù da pensionati ed orientali con la passione per le lasagne in microonde e il riso con le cozze surgelate. Grazie a mio zio, siciliano come me e grande chef senza alcun titolo, ero riuscito a farmi assumere come aiuto-cuoco. Non avevo mai messo piede prima in una cucina che non fosse quella di casa mia, tra l'altro sempre da voyeur, mai da protagonista. E ovviamente venivo retribuito in nero, ogni due turni, con la paga oraria minima. Fresco di laurea, ero partito per fare esperienza e per migliorare l'inglese, non mi importava. Quanta ingenuità in quelle parole, col senno di poi.
Si lavorava tutti i giorni, tanto. Prendevo l'autobus nel pomeriggio per ritornare, stremato, in tarda serata, voglioso di un bagno e di sonno. Uscivo solo la mattina e, del resto, non conoscevo nessuno. Il lavapiatti cingalese mi accoglieva sempre sorridendo. E dire che era quello che si sbatteva maggiormente, tra stoviglie e mansioni di pulizia svolte a ritmi per me impossibili. Ricevendo in cambio le stesse sterline che prendevo io, e molti insulti in più: Londra, anche Londra, sa essere ingiusta e razzista. In quella minuscola cucina stava racchiuso un microcosmo della vita di oggi, la sua voracità da tritatutto: se non ci facevi l'abitudine, ne uscivi presto e male. Il boss, pur nel suo esser lunatico ed imprevedibile come il cielo della City, tuttavia aveva dei momenti di brio. E in uno di questi mi stuzzicava con le sue dorate imprese dongiovannesche. Fu lui a darmi quel numero.
Dopo un mese mi decisi a chiamare. Fissai un appuntamento, come se si trattasse di una visita medica. Avevo voglia, una voglia tremenda, che quella città, che di continuo affitta e vende qualsiasi cosa, aveva reso irrefrenabile. Le mani già callose e tagliuzzate qua e là mi chiedevano uno sfogo che non si concludesse in loro e il desiderio s'era stufato di penare in solitudine. Per questo lasciai che le dita digitassero quel numero. Presi la metro e scesi a Bayswater, in zona 1. L'indirizzo che mi era stato mandato per sms corrispondeva a degli appartamenti signorili. Ero arrivato. Suonai al citofono e una voce bisbigliò di salire le scale sulla destra, fino al terzo piano. Con timore e curiosità, divorai i gradini. Il rumore dei tacchi alti mi singhiozzava nel petto.
La porta si aprì il tanto che bastava a farmi entrare e si richiuse immediatamente. Avevo solo mezzora; era bellissima. Un completo intimo esaltava la sua femminilità, il seno, i glutei, le forme sode da donna giovane eppure adulta. Non potevo pensare, non dovevo. Lei, rumena di Costanza, parrucchiera col sogno di un salone tutto suo, nemmeno. Eravamo lì perché entrambi avevamo bisogno di qualcosa. Pur non gustando quel piacere che avevo fantasticato per strada, mi spinsi fino in fondo. E, nonostante mi costasse diversi turni lavorativi, ci ritornai. Londra ti mastica e ti sputa; tu stai al gioco, consumando. Quick, quick, come al ristorante, come in un qualsiasi McDonald's: fast food, fast life. Nelle distanze enormi della gigantesca capitale, i soldi e le ore volavano così. In mezzo ai topi e agli immigrati in cerca di fortuna, come un monito, a ricordare che questo mondo si divide in chi paga e chi viene pagato.


Vincenzo Perez

lunedì 27 aprile 2015

[La Settimana politica in versi] - Feste

Feste - Pare che a feste politiche che furono anche molto importanti, si partecipi sempre più malvolentieri, o divisi, o comunque ben distanti dagli ideologi che ci imbastiscono su la solita ricca retorica, ben distante dalle miserie attuali. Proprio per censire ed accompagnare questo "disincanto", anch'io mi sono volute "togliere" tutte insieme le feste politiche, in un'unica poesia. Insomma: "Me sò tolto il pensiero...



Per l'8 Marzo è cosa già prevista
che Laura si intervisti fra le prime,
poi parla la Mannoia e ci deprime,
se parla viceversa ci intristisce.

Il 25 Aprile, stelle e strisce
non sono state sole a far la storia,
qualcuno ci tirò pure le cuoia,
per un'Italia nuova e antifascista.

Raccontalo a Maroni l'organista
che il nostro tricolore non è arredo,
è uguale sia davanti che di dietro,
un po' come per lui sedere e faccia.

Il I Maggio più non ci si sbraccia,
al giovane gli basti il Concertone,
non si interromperebbe un'emozione,
ma viceversa c'è il sindacalista,

che grida alla gran piazza progressista:
"Compagni, siamo più di tre milioni".
Però trent'anni fa, con altri suoni,
a San Giovanni entravi in retromarcia.

Esperta di statistiche e di stime,
i numeri contesta la Questura.
Del resto, c'è qualcuno che li giura? 
C'è un metodo di scienza o si fa a vista?

A Giugno con Pinotti l'arrivista,
un F-35 e qualche drone,
la Freccia Tricolore va in pensione,
per evitarci un'altra figuraccia.

Da Ottobre qualche festa si rintraccia
di santi, di defunti e di madonne.
E' l'ora del letargo e ognuno dorme,
non dormono mai i servi di regime.

Gianfranco Domizi

venerdì 24 aprile 2015

[NarrAzioni] Premio Ortega y Gasset: per un giornalismo "que mira con otros ojos"

José Ortega y Gasset nacque a Madrid nel 1883, nel bel mezzo di quella sensazionale svolta economica, sociale e urbanistica d’Europa che la storia è solita chiamare modernità. Nella sua crescita fu fortemente influenzato e affascinato  dal clima giornalistico – la madre era proprietaria del giornale madrileno El Impartial e il padre ne era autore -, e questa influenza gli permise di sviluppare ben presto la convinzione del fatto che al politicamente disinteressato popolo spagnolo era assolutamente impossibile rivolgersi in gergo politichese. Così, soprattutto per mezzo di articoli, intraprese l’ardua missione di trasmettere il suo pensiero filosofico e politico con un linguaggio semplice e diretto.
Il grande merito di Ortega è quello di esser stato tra i primi pensatori a divulgare cultura e pensiero nella maniera colloquiale che necessitava l’allora nascente società di massa. Ma i suoi lavori, dalla maggior parte del clima intellettuale di quel tempo, furono rifiutati e sottovalutati: l’esprimere idee in articoli, conferenze e chiacchiere da bar era considerata dai più una forma non ortodossa di fare filosofia. Per i suoi più colti contemporanei, Ortega non era un vero filosofo.
Ogni giornalista dovrebbe dedicare un piccolo spazio della propria anima professionale a questo pensatore: la sua incompresa rivoluzione culturale e comunicativa è stata il punto di partenza di un modo di raccontare la realtà che si presume essere oggi una delle basi del giornalismo di qualità.  

A vederla così, oltre agli umili scrittori della redazione di Tutùm, è anche l’autorevole quotidiano spagnolo El Paìs, che nel 1983 ha scelto di dare il via a un premio annuale per i migliori lavori giornalistici in lingua spagnola proprio a questo importante personaggio.
Il premio Ortega y Gasset ha l’obiettivo di far luce sulla difesa della libertà, dell’indipendenza e del rigore come virtù essenziali del giornalismo, riconoscendo tutti quei prodotti che nell’anno precedente si sono distinti per la qualità delle loro narrazioni.
Al premio possono ambire tutti i lavori scritti, digitali e grafici pubblicati in lingua spagnola all’interno di riviste e quotidiani di tutto il mondo. Ad ogni vincitore viene elargita la somma di 15,000 euro e un’opera dell’artista spagnolo Eduardo Chillida.

La 32esima edizione del premio si è svolta la scorsa settimana, e la sua giuria ha premiato quattro giornalisti e attivisti nell’ambito degli sprechi pubblici, del crimine organizzato, della diseguaglianza nell’immigrazione e della resistenza giornalistica in Venezuela. Quel che sono riusciti a fare i vincitori, secondo la giuria, è realizzare giornalismo di qualità nel mare magno della notizia postmoderna, immediata, ipermediata e fulminea che domina il panorama contemporaneo.

Nella categoria Periodismo impreso (su carta stampata),
il riconoscimento è stato assegnato a Pedro Simòn e Alberto di Lolli: motivo del merito, l’elaborato reportage “La Spagna degli sprechi”, pubblicato in El Mundo nell’ottobre dello scorso anno. 
La Espana del Despilfarro consiste in una serie di storie che attraversano con grande ritmo narrativo tutti quei casi apparentemente trascurabili della grande storia dello spreco di risorse pubbliche spagnole. L’approccio che i due autori sono riusciti a sviluppare, secondo la giuria, è “del tutto nuovo”, e abbraccia “una tematica che è invece molto ricorrente”. Simòn e Lolli sono riusciti a entrare nel profondo di uno degli argomenti più trattati dal giornalismo spagnolo – e dunque, paradossalmente, tra i più difficili da affrontare -, lasciando emergere aspetti generalmente trascurabili, ma di vitale importanza agli occhi di un’analisi attenta.

Nella categoria Periodismo Digital, ad ottenere il premio è stato lo speciale Los nuevos narcotesoros, pubblicato su Univision Noticias ed elaborato da Gerardo Reyes. Il lavoro, grazie a un ampio repertorio di testimonianze dall’interno, ripercorre il modo in cui “A fuoco e sangue il crimine organizzato ha trasformato le miniere illegali al largo dell’America Latina in una fonte di entrata importante tanto quanto quella della droga”. Il valore giornalistico di questo lavoro sta non solo nella tematica trattata, ma nel modo in cui è stata trattata. Secondo la giuria, “alcune delle testimonianze sono travolgenti per la loro durezza e per aver illustrato l’uso generalizzato della violenza nei conflitti sociali del continente americano”. Il ritmo narrativo del reportage è emotivo, descrittivo e approfondito. Il concetto di giornalismo digitale, inoltre, è completato dall’ampio di uso di video-testimonianze che accompagnano tutta la storia.

La categoria Periodismo Gràfico è stata quella che ha fatto
più discutere.
Nell’epoca dell’immagine digitale e potenzialmente globale, scavalcare i confini della consuetudine è opera pressoché impossibile. Secondo i giudici del premio spagnolo, però, a riuscirci è stato José Palazòn, direttore della ONG per i diritti dell’infanzia Prodein, che ha fotografato i migranti intenti a scavalcare la ringhiera della valle di Melilla mentre alcune persone, di fronte a loro, giocano tranquillamente a golf.
“E’ una fotografia capace di spaccare la struttura abituale delle immagini che si conoscono oggi sulla tematica della migrazione – hanno spiegato i giudici – è dotata di grande senso giornalistico e riflette l’enorme distanza economica, sociale e di aspettative di vita che esiste nei due mondi, il primo e il terzo, tanto vicini geograficamente”.

Infine, per concludere, si è premiato il giornalista distintosi per la propria traiettoria professionale. Con l’unanimità dei giudici, ad aver ottenuto il riconoscimento è il venezuelano Teodoro Petkoff.
Fondatore e direttore della rivista “Tal Cual”, Petkoff è considerato uno dei più influenti politici della sinistra venezuelana. Tra la guerriglia e la lotta comunista (conclusasi negli anni ’90 con un cambio di rotta verso il neoliberalismo) , la sua carriera politica e giornalistica è stata considerata parte di una “coerente condotta di vita”. Una vita spesa inseguendo ideali e sempre al servizio del Paese, sostengono i giudici. Nel ritenere Petkof meritevolte dell’importante riconoscimento, sottolineano la “straordinaria evoluzione personale che lo ha portato, dai suoi inizi come guerrigliero, a trasformarsi nel simbolo della resistenza democratica attraverso le pagine del suo Giornale”. 

Se volessimo leggere tra le righe del premio Ortega y Gasset, secondo me, potremmo affermare che i lavori giornalistici a cui assegna i suoi premi sono esempi non solo per il “lavoratore” della comunicazione, ma anche per il lettore. Quello che ci circonda è un mondo rapido, sempre in movimento, i cui input sono tempestivi tanto quanto le risposte che richiedono. Andare a fondo nel leggerlo è diventata una prerogativa essenziale, se si vuole ancora portare a termine la vocazione originaria del raccontare e interpretare la realtà. E forse, dare un po' d'attenzione in più al buon giornalismo può rappresentare uno dei primi passi nell'ardua impresa del cambiare il mondo.





Giulia Capozzi
@Giulscapozzi

giovedì 23 aprile 2015

[PoesiArte #4] - Amor ch'Amore hai colto

Senza neanche accorgercene, siamo giunte al quarto mese di questa artistica fusione sorrellesca. Abbiamo scelto di toccare ancora una volta il tema dell'amore, un amore tenero, docile. Ma intento a crescere sulla sua terra sicura come un grande e saggio albero...



Per ingrandire le fotografie di Martina Capozzi, cliccaci sopra
Amor ch’amore hai colto
non svanire,
tieni vivo nella landa che s’asciuga
questo fragile e costante dipartire

Dipinta di rugiada e venti
sono ancora tenero fiore,
ma saprò lottar con le radici
nella terra d’una Quercia che non muore

Come salice piangente
fermo in schiere,
ti racconterò le favole del vento 
tra le fronde del fiorente mio ondeggiare.
J.C.

mercoledì 22 aprile 2015

[Tutùm Teatro] - "Lucciole di Mago": Cotrone e Pirandello


COTRONE: «La contessa ha una voce che incanta...Io credo che, se volesse entrare un po’ nella villa, si sentirebbe subito riconfortata...»


Se dovessi scegliere di andare da qualche parte e in compagnia di qualcuno io troverei le coordinate tutte nell’incipit de I Giganti della Montagna: Villa, detta “La Scalogna” dove abita Cotrone coi suoi Scalognati.
Una volta arrivata alla Villa, passando per il ponticello, incontrerei Cotrone e lui, senza indugio, mi inviterebbe a restare.
Sederei a piedi scalzi nel prato e gli chiederei di mostrarmi le sue lucciole di mago, per sognare nel fresco della sera.
Non riesco a ricordare più il volto di Cotrone come lo conoscevo prima, quando per me era un personaggio uscito dalla carta e dalla mia stessa fantasia. Ora Cotrone, per me, ha il volto e la voce di Franco Graziosi , ma non ha perso il suo fascino; molte cose sono mutate nel mio immaginario dopo aver visto quella regia televisiva de “I Giganti” di Strehler. Penso spesso alla voce e ai piedini de La Sgricia di Giulia Lazzarini e la penso come si pensa una nonna o una vecchia amica.

I Giganti è per me la favola delle favole come era per Pirandello quella del figlio cambiato.
Incompleta e romantica, in un posto lontano chissà quanto, dove rifugiarsi se il mondo sprofonda. Quando il futuro è alla deriva Cotrone riunisce gli Scalognati in un paradiso di illusioni che son vere tanto quanto la realtà, dove il necessario è fabbricato dal sogno. Raccogliersi per salvarsi, come nel Decameron: Fuori impervia la peste? noi chiudiamoci in una villa a vivere di storie. Qualcosa di non troppo lontano da questo dice Cotrone e tenta di convincere la povera Contessa dilaniata dal dolore che non c’è motivo alcuno per ripartire, che la novella potrà essere raccontata lì: Nella magica villa. Partire o rimanere? Continuare a sguazzare nel dolore o trovare pace e ristoro? Secondo la testimonianza di Stefano Pirandello la compagnia teatrale avrebbe poi rappresentato la novella davanti ai servi dei giganti che incapaci di comprenderla, inferociti, avrebbero straziato il corpo della prima attrice in simbolo de «la tragedia della Poesia in questo brutale mondo moderno», come scrive lo stesso Pirandello in una lettera a Marta Abba. Ma chi può
dire quale porta si sarebbe spalancata grazie all’incontro delle due realtà? Secondo me Pirandello non l’ha mai scoperto, neanche nell’ultima notte di vita, il 10 dicembre 1936.
Siamo nella prima metà degli anni 90 e l’alta letteratura italiana è in crisi: non c’è più Carducci, Pascoli, Verga e altrettanto in crisi è il teatro borghese dell’epoca. E’ necessaria un ventata d’aria nuova ed è qui che Pirandello entra in scena, più come un orologiaio o un cuoco che come un letterato.
Nonostante non riuscisse agli alti letterati di includerlo nei loro ranghi, persino Gramsci si era accorto dell’impulso rivoluzionario di Pirandello. Egli fu mago, per se stesso e per gli altri: operò facendo incantesimi sulle trame mutandole di natura, mostrando un mondo poi spogliandolo e mostrandone un altro ancora.
Delitti, tormenti, bugie, segreti, tradimenti e passati fantasmi infestano ovunque e silenziosamente le trame delle sue opere. Il suo sapiente operato avviene attraverso la comprensione delle fonti, riprendere le trame del teatro borghese e poi manometterle. Pirandello cerca di capire come funzionano e poi le intriga e le incastra lasciando la maggior parte delle volte il lettore/spettatore con l’amaro in bocca: L’intreccio complicato che non va a finire.
I Giganti della montagna è il perfetto esempio dell’intrigata macchina pirandelliana,
così perfetto da non potersi sbrogliare ed io, con Cotrone, continuo a cullarmi in una magica illusione.

COTRONE: «Lucciole. Le mie. Di mago. Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orgli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile : vaporano i fantasmi. E’ cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore... tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa.»

Dafne Rubini

martedì 21 aprile 2015

[Itinerari Culturali] Oltre la fotografia #2: Brancati, ritrarsi per non dimenticarsi


Sono infiniti i modi in cui la fotografia può venire in contatto con le arti. È un modo di comunicare estremamente eclettico, spesso la si vede unirsi alla parola scritta come supporto didascalico, ma può entrare nelle righe di un testo in maniera più profonda nascondendosi nei meandri più reconditi di ogni storia raccontata.
È il secondo modo quello in cui Vitaliano Brancati lasciava che il mezzo fotografico si diffondesse nei suoi romanzi. Lo scrittore siciliano visse nel primo cinquantennio del Novecento, quando la fotografia cominciava a diffondersi sempre più in tutti gli strati della società. Lentamente, un passo per volta, la fotografia, come tutte le nuove tecnologie, entrava a far parte della quotidianità. L'interesse di Brancati a riguardo va quindi inteso in un'ottica più ampia, il suo sguardo è rivolto a un mondo inedito, quello dei nuovi mezzi di comunicazione. Le scene chiave delle trame brancatiane sono spesso messe evidenza dalla presenza del telefono, della radio o, appunto, della fotografia. Quel che ne viene fuori è un ritratto nel modus vivendi della società quando la novità cominciava a integrarsi nei piccoli gesti di ogni giorno o di un giorno eccezionale.

Chiaro, sì, Natàca era una funesta città. Ma tre cose di Natàca non abbastanza chiare.
[…] Una seconda era il modo con cui trattavano la vita Maria Careni e il marito; che la domenica andavano per i viali del giardino pubblico seguiti da una piccola carrozza dal cui fondo un minuscolo essere rispondeva minimamente allo sguardo che la sorellina, trottando presso la vetturetta, gli mandava di continuo, e fissava invece, con una strana attenzione, il
piccolo fratello che distendeva il braccio, aprendo e chiudendo malamente il pugno in segno di addio, di sui polsi di un'altissima mora. Che significava quella loro mania dei ritratti, per cui di ogni domenica si conservano centinaia di copie, e le facce e le cose (nelle quali i tre amici avevan letto con disgusto che, sotto quel tempo che no volevano mai passare, la vita fuggiva via in un baleno) erano amorosamente e minutamente ripetute su carta doppia e su carta patinata: e del fatto che il minuscolo Lello aveva sgangherato la bocca per chiedere un palloncino, rimanevano i segni negli album, sulle pareti, sui tavoli e al capezzale del letto? E in che consisteva la bellezza di quel passatempo per cui padre e madre, seduti in un sedile, facevano avvicinare di tra le foglie il volto della bambina, portata in braccio dalla mora, e lo spingevano a sorridere, prima da lontano, poi da vicino, poi lo spaventavano, ma subito tornava a sorridere?
Poco chiaro, poco chiaro! E forse stupido!1

Nasce così l'ossessione per la fotografia di due dei numerosi personaggi degli Anni perduti, scritto da un Brancati ancora giovanissimo ma non alle prime armi. Il contesto è quello di una città siciliana, Catania, celata sotto il nome di Natàca caratterizzata da uno scorrere del tempo inesorabilmente lento. Natàca è un inferno di miele da cui non si può, e in fondo non si vuole, fuggire. I suoi abitanti non vivono la vita, da essa vengono vissuti. Sembra che a Natàca non ci sia nulla da fare oltre che aspettare che il tempo passi. Così Maria Careni con il marito e i figlioletti passeggiano ogni domenica mattina nei viali alberati della città per fotografare e fotografarsi in centinaia di ritratti tutti un po' troppo uguali. Quel mettersi in posa sorridenti così iterativo a Natàca nessuno lo capiva. Quello stampare infinite copie di una stessa immagine, quel riempire la casa di sorrisi provocati, di ricordi di una routine domenicale, proprio nessuno lo comprendeva.
Si è detto che a Natàca il tempo scorreva lento e inesorabile, ma – a prescindere dal suo ritmo – il tempo scorreva. Parlava Bazin del «complesso della mummia», sostanzialmente alla base delle arti è il bisogno dell'uomo di difendersi proprio dallo scorrere del tempo. Ma se la pittura e la scultura consegnano l'uomo all'eternità, la fotografia «imbalsama il tempo, lo sottrae solamente dalla sua corruzione»2. Fotografare per sconfiggere la morte grazie a una riproduzione meccanica oggettiva che offre una registrazione integrale e prossima alla realtà fenomenica. Fotografare è mummificarsi, è salvare l'apparenza, fermare un attimo in un immagine e con esso il tempo stesso. Agli abitanti di Natàca proprio non era chiaro, eppure Brancati l'aveva compreso e descrivendo le domeniche dei Careni aveva inconsapevolmente ritratto le passeggiate dei nuovi genitori del Duemila.

Serena Mauriello

1Vitaliano Brancati, Gli anni perduti, Milano, Bompiani, 1963, p. 158.
2Fabiola Naldi, I'll be your mirror, Travestimenti fotografici, Roma, Castelvecchi, 2003, p. 92.

lunedì 20 aprile 2015

[La settimana politica in versi] - Arrivedorci!

Arrivedorci! -  I miei ritorni a casa, a pranzo dopo le scuole elementari e medie (fino agli inizi degli anni '70), erano allietati dalle Comiche. In una, Stanlio e Ollio tentavano di andare in vacanza, salutavano tutti più volte ("Arrivedorci!"), ma poi, all'ultimo momento, l'automobile si guastava e si riguastava, e non partivano mai. Un po' la situazione della vecchia guardia PD (Bersani, Cuperlo, D'Alema, Rosy Bindi ed alcuni insipidi quarantenni), che è sempre pronta, anche eventualmente a ragione, ad andarsene, o quantomeno a far esplodere il conflitto all'interno del PD. E poi sta sempre lì, ad eccezioni di dimissioni di Speranza, che, secondo me, ci vorrà veramente poco per far rientrare. "Arrivedorci!".


Minaccia d'andar via la minoranza,
nell'esito seguendo Enrico Letta,
poi Cuperlo egualmente s'inchiappetta,
però ... compagni miei ... che mal de panza!
Minaccia d'andar via la minoranza,
contraria alla riforma del lavoro,
intanto ben s'impiegano fra loro:
le Coop, e chi sta fuori può far senza.
Minaccia d'andar via la minoranza,
benché si sia attestata al Quirinale,
non va però la legge elettorale,
staremo per un po' senza Speranza.
Ma resta il resto della minoranza,
per ottimi quesiti che ha da porci.
Ricordano fin troppo "Arrivedorci!" ,,,
... salutano però non c'è partenza.

Gianfranco Domizi

giovedì 16 aprile 2015

Cinquantacinque, l'età della rottamazione generale #4

Questo gruppo di 5 poesie sviluppa il tema dei rapporti fra uomo e donna con ironia ed anche con leggero sarcasmo. L'ignoto writer, armato di pennarello e scarso senso della grammatica, fa da chiosa.



16 Vispa Teresa

La vispa signora 
si posta svestita, 
si lecca le dita, 
le scrivi ... t'ignora ...

17 Il Dubbio

Per ottener molteplici "Mi piace",
 si parla dell'eternità d'amore, 
del senso della vita, della pace ... 
... su Facebook si rimorchiano le suore?

18 Copincolla

Di donne qui su Facebook ne recuperi, 
che mostrano di sé l'eccezionale. 
Copincollando tutto Saint-Exupery, 
non sembrerai quel solito maiale ...

19 Cadeau

La depressione, l'ozio, la libido 
diventano occasioni che mi do 
per rinnovar me stesso, poi ne rido, 
donandovi su Facebook dei cadeau.

20 Non te lo do!

Mi sfrantumasti prima coi Flash Mob, 
poi inutili balletti d'Harlem Shake;
sei Happy, ma non sembra sia un granché ... 
... il mio "Mi piace", io ... non te lo do!


Gianfranco Domizi
Fotografie di Marzia Schenetti

[Gianfranco , nato a Roma nel 1959, ed attualmente esule poco paziente nella città di Bologna (essere marxista nella città del PD offre motivi di sofferenza quotidiana), è il tipico dilettante: studente fallito di una prestigiosa scuola di cinema, mediocre compositore ed arrangiatore musicale, poeta largamente opinabile. Adora scrivere di se stesso in prima persona nelle poesie, ma ancor più in terza persona,            in queste futili autopresentazioni.

Marzia , scrittrice, pittrice, fotografa, cantante, muratore ed imbianchina della provincia di Reggio Emilia, è autrice de: “Il Gentiluomo, una storia di stalking” (romanzo-testimonianza, Il Ciliegio, 2011); Parole Desti-Nate” (raccolta di poesie, Il Ciliegio, 2012); “L'Edile (raccolta di poesie, autoprodotta, 2014); “Evil, l'uomo del male” (prequel de Il Gentiluomo”, Il Ciliegio, 2013); da quest'ultimo libro, abbiamo tratto insieme i recital di parole e canzoni:“Evil” (2014), e poi “E … una storia di stalking” (fine 2014). ]

martedì 14 aprile 2015

[Itinerari Culturali] Oltre la Fotografia #1: La rivoluzione della pellicola, Fotodinamismo e Futurismo


Lo scorso mese ci eravamo salutati con l'azzuffa salva onore di vociani e futuristi, questo mese è proprio dai secondi che cominciamo insieme un nuovo percorso.

È il 1910, i tre – giovanissimi – fratelli Bragaglia cominciano una serie di sperimentazioni fotografiche lavorando principalmente sulle lunghe esposizioni.
Anton Giulio Bragaglia, Uomo che suona il contrabbasso
L'obiettivo è uno: rappresentare il movimento nella fotografia. Si vuole liberare la fotografia dalla fissità dell'impressione istantanea della realtà. È il maggiore dei tre, l'appena ventenne Anton Giulio, a pubblicare un anno dopo il saggio Fotodinamismo Futurista correlato di sedici tavole fotografiche. Per i fratelli «è vera espressione artistica perché coinvolge emotivamente tre soggetti: il fotografo, i soggetto fotografato e il destinatario finale»1.
Tra le file dei futuristi c'è il ben noto Boccioni. Non era estraneo alla fotografia, ma non si può dire che l'amasse.
Boccioni nel suo studio
Boccioni fotografa, fotografa spesso, ma non fotografa prendendosi seriamente. A una macchina ingombrante e professionale preferisce una più comoda portatile. Interessanti sono le sue fotografie a livello documentario, ci regalano immagini di sculture ormai perdute, dell'evoluzione del suo studio, ritratti di momenti di vita di Boccioni e di chi condivideva con lui le giornate e l'arte. Le fotografie di Boccioni sono una sorta di foto-diario della sua vita, non opere d'arte. Il giudizio dell'artista nei confronti della fotografia è più che duro, la sua è una vera e propria «scomunica delle tesi bragagliane»2.
Quando i Bragaglia rendono pubblici i loro esperimenti di fotodinamismo, Boccioni non è semplicemente infastidito. Prende la carta da lettere, la penna e scrive al direttore della galleria di Via del Tritone Giuseppe Sprovieri. Con i Bragaglia non vuole condividere nessuno spazio espositivo e per evitare eventuali discussioni preferisce mettere tutto in chiaro.

Mi raccomando, te lo scrivo a nome degli amici futuristi, escludi qualsiasi contatto con la fotodinamica del Bragaglia. È una presuntuosa inutilità che danneggia le nostre aspirazioni di liberazione dalla riproduzione schematica o successiva della statica e del moto... Immagina dunque se abbiamo bisogno della grafomania di un fotografo positivista del dinamismo... Il suo libercolo mi è sembrato, e così agli amici, semplicemente mostruoso. Grottesca la prosopopea e l'infatuazione sull'inesistente.3

Ma non basta aver dato a Bragaglia del grafomane scrittore di libercoli mostruosi, un mese dopo sulla rivista «Lacerba» appare un avviso sottoscritto non solo da Boccioni, ma anche da Balla, Carrà, Russolo, Serverini con l'aggiunta di Soffici.

Qui il problema non è relativo solo al rapporto tra futurismo e fotografia, ma tra arte e fotografia. È un mezzo nuovo, alle sue spalle non ha neanche un secolo di storia e già sembra volersi appropriare degli ambienti ormai ben collaudati a livello millenario dalle altre forme di espressione, come ha affermato Argan «l'incompatibilità nasceva dal fatto usciva dal sistema delle arti che il Futurismo aveva già accettato e convalidato»4. Basti pensare alla reazione di Marinetti connotata da un atteggiamento molto più mite. Marinetti è un letterato, non un artista, e per questo è molto meno minacciato dalle potenzialità della fotografia. Scrive la presentazione alla mostra di Bragaglia tenutasi nel 1912 alla Sala Picchetti di Roma e, esclusivamente quando Boccioni non è presente, lo invita alle serate futuriste. Nel 1930 firma con Tato il Manifesto della Fotografia Futurista, ma quell'apparente riconciliazione non è altro che il riflusso di un ritorno all'ordine. Il clima è altro, l'effervescenza di vent'anni prima si è persa negli anni e Bragaglia è ormai lontano dalle sue dinamiche fotografie.

Serena Mauriello


1Camillo Nardini, Viaggio nel mondo della fotografia, BePub Pubblicazioni digitali, 2013, p. 55.
2Claudio Di Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2012, p. 35.
3Maria Drudi Gambillo, Archivi del Futurismo, a cura di Teresa Fiori, Roma, De Luca, 1958, p. 288.
4Giulio Carlo Argan, Postfazione, in Anton Giulio Bragaglia, Fotodinamismo Futurista, Torino, Einaudi, 1970, p. 165.

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