venerdì 28 novembre 2014

[Eventi] Quint'essenza in Action: la condivisione, la liberazione, l'Arte diSalerno

Sette appuntamenti, sette giornate in cui incontrarsi e scontrarsi sotto il segno dell'arte. Con la regia del direttore artistico Sergio Etere, Salerno si anima nel complesso
monumentale di Santa Sofia in Quintessenza in Action in cui ogni forma di espressione – pittura, danza, teatro, street art, musica, fotografia, poesia, ceramica – è pronta ad unirsi alle
altre in una commistione di forme e colori «alla ricerca dei significati universali e metafisici dell'intima essenza delle cose nonché degli atti creativi che scandiscono i momenti dell'essenza umana» (Annette Armoise).
Entrando nel complesso monumentale, l'osservatore non sa dove guardare. O meglio, lo sa, ma vorrebbe guardare in troppi luoghi contemporaneamente. La chiesa risale al XVII secolo e candidamente accoglie lungo tutto il corso della navata fino all'altare, fin sul tabernacolo, le opere degli artisti, ognuno diverso dall'altro: in una dimensione collettiva ogni artista mantiene la propria individualità, la propria intimità. Tutti insieme espongono e tutti insieme creano. Perché quella di Sergio Etere e della sua cerchia, se così la
vogliamo chiamare, è una mostra innanzitutto dinamica in cui tutto è pronto a nascere e rinascere. Durante il corso della settimana i vari appuntamenti sono segnati da un action, una performance in cui non solo l'arte viene messa in mostra, ma generata davanti agli occhi del suo fruitore in una collaborazione continua tra i vari artisti, una commistione di generi, suoni, colori, forme, parole.

L'idea viene dal passato per rincontrarsi e ritrovarsi sotto il segno dell'arte, coinvolgendo le nuove generazioni. Sergio Etere ha vissuto il sogno degli anni '70, della rivoluzione artistica americana, dell'attivismo vero, dell'arte che non si chiude in un mondo stantio.«In Italia ho partecipato ai festival negli anni Settanta» racconta «ero amico di Battiato. Il nostro sogno era fare quello che fanno in
America: tutti insieme, artisti e musicisti. La mia vita da allora era cambiata: tornavo dall'ufficio e mi mettevo sul divano bianco e cazzeggiavo davanti alla televisione, poi di nuovo in ufficio. Un giorno è venuto Jacopo a casa mia e mi ha portato ai vari eventi che ci sono stati quest'estate. Annamaria l'ho conosciuta alla Festa del Fuoco. Me ne tornavo sempre a
casa e dicevo Io ho già dato. Quarant'anni dopo pensavo che il mondo era cambiato, invece il look è cambiato ma la gente è sempre la stessa. Così nasce tutto, abbiamo messo insieme tutto questo. Voglio anche dimostrare all'amministrazione comunale che possiamo fare Cultura senza un centesimo, aggratis come dite a Roma, non come fanno loro, spendono tanti soldi per fare un evento. La nostra è l'altra Cultura. Ci siamo rincontrati tutti, è bello rinnovarsi». I contatti con le nuove figure dell'arte di ogni generazione hanno dato vita alla voglia di creare un evento che mettesse insieme il fermento che li animava. Dai primi di settembre, con la fedele collaborazione del fotografo Jacopo Naddeo, che si è occupato anche di documentare il backstage con i suoi scatti, sono incominciati i primi incontri
e le prime selezioni. Insieme sono andati a visitare i vari atelier per conoscere meglio gli artisti e le loro opere. «A volte Sergio ha lavorato con gli artisti per creare un qualcosa da esporre in mostra, come con la ceramica», racconta Jacopo Naddeo, «inizialmente voleva inserire solo persone che facevano parte della sua vita artistica e personale presente e passata, ma poi il progetto si è ingrandito in nuove conoscenze. A Salerno è stata inaugurata la biennale d'arte contemporanea in cui l'importanza monetaria è altissima. Noi, invece, abbiamo fatto arte di tutti e per tutti. Tutti quelli che hanno partecipato l'hanno voluto senza nulla in cambio». Quella di Quintessenza in Action è l'altra Cultura, la Cultura fruibile a tutti, senza doppi scopi o volontà di guadagno. È la Cultura che persegue il suo unico interesse: comunicare, condividere.
Gli artisti erano tanti, le opere diverse. In connubio di stili, colori e materiali differenti, nell'aria si è materializzato il filo rosso capace di legare più generazioni in un solo spazio. In una palpitante mixtio di vita, la musica ha fatto dell'atmosfera quel che della tela hanno fatto i pittori.

 Il cuore di ogni appuntamento è la performance, il momento in cui artisti e pubblico si incontrano per dar vita all'opera, all'atmosfera: alla serata inaugurale, sei mani immerse nei suoni bollenti del complesso musicale Le Zampogne Daltrocanto e votate a tele vuote e barattoli di acrilico, hanno dato vita a due dipinti, prodotto di quello che secondo Sergio Etere è il significato fondamentale della performance: «non è contestazione, il senso di tutto è la liberazione». Contemporaneamente, all'esterno del complesso monumentale, un gruppo di writer ha potuto
esprimersi liberamente dipingendo su dei pannelli poggiati sui muri della chiesa. Il writing inserito tra le arti riconosciute, senza pregiudizi di genere, senza limitazioni, perché alle sue spalle il graffito ha una tradizione ben salda che non può essere dimenticata e dalla quale gli artisti di strada contemporanei non si distaccano: «Chi l'ha fatto prima di noi ci ha dato della basi importanti, anche seguendo le loro idee e i lori progetti abbiamo cercato di evolverci a livello artistico e non vandalico» ricorda Peppe de Martino, uno dei writer convolti nella manifestazione. Quella
di Quintessenza in Action è stata una grande possibilità per esprimersi senza costrizioni, per essere accettati in un ambiente riconosciuto: «Ci è capitato di non essere accettati a manifestazioni culturali. Dai Madonnari, ad esempio, sono stati i giudici ad aprire la mente alle persone, a far capire che quello che facciamo non è sporcare ma decorare, fare arte. Il writing, per me, è un modo per esprimere dei sentimenti, delle emozioni, delle visioni difficili da tirar fuori con le parole. Quando dipingo in una manifestazione cerco di portare sul muro quello che provo, lo faccio

soprattutto tramite i figurativi. A livello illegale il writing è tutt'altro: è adrenalina, è il brivido di vivere al di fuori dalla realtà, come essere in un film.»

Quintessenza in Action non è solo arti grafiche, ma anche poesia. Tra i vari poeti, Valeriano Forte. La sua lettura è stata affiancata dal lavoro pittorico di Sergio Etere e Annamaria Di Nitto, che guidati dalle parole hanno dato forma al colore. La tela ha preso vita sotto gli occhi del poeta, ma all'oscuro degli spettatori. Solo al termine della performance l'immagine è stata concessa. 
«Ho cercato di raccontare quale fosse la quintessenza delle cose» ha raccontato Valeriano Forte «il colore, soprattutto nelle azioni quotidiane. E' nella routine che cerco di creare un solco ben visibile. […] Io l'ho guardata attentamente la tela che è nata da questo connubio, e devo dirti la verità: mi ha emozionato molto l'uso del blu, parlavo del mare, ci vorrebbe più di uno sguardo per capirlo. C'è stato molto di più di me che non ho trovato di me in quel

gesto pittorico, credo che sia possibile ritrovarsi. Certo, è più complesso quando si parla di astrattismo». 

Ciò che conta in questi incontri è l'armonia, l'armonia che nasce dal saper condividere i propri significati, riuscire a «mettere» i «cuori in empatia», sentire le stesse «vibrazioni».

Serena Mauriello, Giulia Capozzi

Fotografie di Jacopo Naddeo



mercoledì 26 novembre 2014

AsSaggi di Letteratura di S. Mauriello: Come la carta stampata, Sulla letteratura murale



«Il muro è la pubblicità che si sottrasse sempre alla censura» affermava Carlo Dossi nella n° 1766 delle sue Note Azzurre. Perché i muri sono carta bianca per esprimere il proprio dissenso, sono il baricentro dell'umore politico, tela da riempire per gli spiriti d'opposizione. Se ci si può sottrarre alla lettura di un libro, una scritta sui muri non può essere non letta. È lì per catturare gli occhi di chi non vuol guardare, ma per il suo carattere etereo sa di non poter essere eternamente.
Qual è la percentuale dei muri scritti in Italia me lo sono spesso domandata, allungando lo sguardo per strada fatichi a trovare candore sulle pareti in mattone. Dietro quegli ACAB che firmano come un inciso i graffiti dei writer metropolitani di turno qualcosa dovrà pur esserci. Non sono qui per disquisire sulla correttezza di un gesto che potrebbe da alcuni esser definito improprio, ma quanto il suo uso sia stato fondamentale per la storia del costume e non solo. A illuminarmi, un saggio di Anna Scannapieco, Patriota chi legge. Tutto quel turpiloquio, quel non voler riscattare alcuna catarsi estetica di un AI TEDESCHI UNA MERDA IN BOCCA oltre alle grasse risate e alle boccucce storte di qualche ben pensante oltre che di qualche lettore di origine germanica (e qua mi scuso con gli eventuali permalosi) assume ben altro significato se si pensa che campeggiava sui muri della Milano del 1847, la Milano risorgimentale che in sé mesceva il desiderio di farsi indipendente. L'intelligenza popolare è sintetica, diceva Montanelli, con un viva o un giù può riassumere grandi insegnamenti. Solinas l'ha confermato in Verona e il Veneto nel Risorgimento, i muri «sono un'infallibile barometro politico poiché con i loro abbasso ed evviva segnano per i governanti il bello e il cattivo tempo». Eppure quello che può essere uno strumento del popolo è stato più volte manovrato da chi ci aveva visto lungo. Dell'uso che il fascismo ha fatto della letteratura murale ne restavano i segni nelle campagne di Viterbo. Il Regime ne fece ampio uso, come ricorda Cordona nel saggio Culture dell'oralità e cultura della scrittura, «graficamente c'era un canale largamente funzionante, quello degli slogan mussoliniani epigrafati con solennità grafica su edifici pubblici e privati». Apparivano improvvisamente soprattutto in aziende agricole dove lavoravano permanentemente un ampio numero di lavoratori della terra, menti che più di tutte erano terreno fertile e facilmente manipolabile per la propaganda. Quello che all'apparenza era un gesto dettato dalla spontaneità popolare, era il primo mass-media manipolato dalla dittatura fascista. Paradossalmente, si fingeva libertà di espressione popolare nel momento in cui la si reprimeva. Tuttavia un'arma troppo usata finisce per sbeccarsi: come ricorda la già citata Scannapieco «proprio la martellante esuberanza della letteratura murale fascista dovette, con effetto boomerang, incentivare la rieducazione degli italiani all'uso contestativo delle scritte».
Ma che sui muri non ci sia censura è una verità profondamente relativa, se non una mezza verità. La storia della letteratura murale è segnata di scritte incise e poi rimosse. Non sono solo i writer del duemila a scappare dalla polizia in palpitanti corse notturne. Eppure la letteratura murale deve la sua permanenza nella storia proprio grazie al suo più acerrimo nemico. È dagli archivi della polizia che arrivano le testimonianze di quelle parole non concesse alla pubblica stampa. Quelle stesse parole prima rimosse e poi prontamente registrate in faldoni poi ricoperti di polvere. Lo sapeva bene Montale quando l'11 settembre 1943 scriveva una poesia pubblicata poi il 16 ottobre 1944 sul quotidiano fiorentino «Nazione del Popolo». Quel baffo buco – e scusatemi la volgarità necessaria – è quel frocio di Hitler.

Sugella, Herma, con nastri e ceralacca
la speranza che vana
si svela, appena schiusa ai tuoi mattini.
Sul muro dove si leggeva MORTE
A BAFFO BUCO passano una mano
di biacca. Un vagabondo di lassù
scioglie manifestini sulla corte
annuvolata. E il rombo s'allontana.


Serena Mauriello

martedì 25 novembre 2014

Maestra Poesia: Vittorio Sereni, Non sa più nulla


Non sa più nulla – da Diario d'Algeria, 1947. Vittorio Sereni è prigioniero, la sua unica facoltà è pregare. Fuori da quelle mura, è lo sbarco in Normandia: il 6 giugno 1944. Il poeta si sente escluso da quel mondo in cui qualcosa sta accadendo, a quella spiaggia può volgere solo un pensiero recluso nel purgatorio della sua esistenza: egli è morto alla guerra e alla pace. Non c'è musica d'angeli, ma una musica propria, di quel mondo tremendamente vicino e tremendamente reale.

Jamie Wardley e Andy Moss, The fallen


Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l’Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.

Ho risposto nel sonno: “È il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta”.


Vittorio Sereni, nato a Luino, sul Lago Maggiore, nel 1913, ma ha trascorso la sua adolescenza a Brescia e ha studiato a Milano nella facoltà di Lettere e Filosofia. Il percorso di studi permise a Vittorio Sereni di vivere all'interno di un grande fermento culturale, stringendo i contatti con personaggi di spicco come Renato Gottuso, Luciano Anceschi, Enzo Paci. Nel 1938 diviene redattore della rivista «Corrente di Vita Giovanile» fondata da Ernesto Treccani.
Nel 1940 venne chiamato al fronte, il 24 luglio 1943 fu fatto prigioniero con il suo reparto dagli Alleati sbarcati in forze in Sicilia. Fino al 1945 trascorre il suo tempo in prigionia tra Algeria e Marocco francese. Rientrato a Milano inizia la sua carriera nell'insegnamento e allo stesso tempo lavora in qualità di redattore presso il «Giornale di Mezzogiorno» di Lombardi ed entra nella redazione della rivista «Rassegna d'Italia» di Solmi stringendo amicizia con Saba. Per due anni lavora alla Pirelli e nel 1958 diviene direttore editoriale per la Mondadori fino alla sua morte avvenuta nel 1983.

Rubrica a cura di Serena Mauriello

lunedì 24 novembre 2014

Il meglio degli Ospiti: Mi chiudo, Nnaz''o Ffuoco, Pensando a Silvia


Oggi ai lettori di Tutùm riproponiamo le poesie di tre ospiti; quelle più peculiari, che maggiormente hanno fatto emozionare i lettori.
Per ricordare ogni tanto quel che è già stato.





Mi Chiudo




Mi chiudo in solitudine e ti ascolto
quasi che la tua voce mai finita

propaghi i suoi riverberi di vita
nel gorgo in cui mi trovo e mi rivolto.

Intonerai per me salmi lucenti
al dio che, so, comprende la preghiera

di chi non ha risposte e si dispera
nel buio impenetrabile di eventi.

Avrò un ritorno di eco conosciuta 
e un lume farà strada all' insicuro

procedere dei giorni in chiaroscuro
che sono all' ombra di un' età perduta.

Io sentirò il richiamo prepotente
di immagini indelebili e concerti 

suonati in anni in cui fummo scoperti 
schiavi d' amore vergine e fervente.

Ora ripasso storie e le coloro
con suoni che ritornano alla mente,

quando un brusio sommesso da ponente
rivolge al sole complimenti d' oro.

E in tutto quel rigurgito brillante
di bronzo e di ramate scremature

un filo tesse morbide suture
tra la malinconia e il dì restante.

Così, così mi sciolgo e mi addormento
come se nulla fosse già compiuto,

tendo l' orecchio e sto in attesa, muto,
che infine taccia pure lo sgomento.


Gesuino Curreli

**


Nnanz''o Ffuoco




Nnanz”o ffuoco. Mo, parlanno, mo mute, mo mano int”a mano, mo luntano ma sempe scarfate ‘a stu ffuoco ch’appena tu vide s’allenta gravone nuovo subbeto ce miette, e io so’ cuntento.
Nnanz”o ffuoco. Mo, redenno e mo serie, mo carezze, mo niente ma sempe scarfate ‘a stu ffuoco ch’appena io veco s’allenta gravone nuovo subbeto ce metto, e tu si’ cuntenta.
Raffaele Pisani
**
Pensando a Silvia


Quando nell'ombra, lento, cala il giorno
Nel fluire d'acqua chiara sulla riva,
Risuona dentro il canto d'onde frante,
Quel tempo d'armonia in cui ti fui amante.
Dal mondo degli affanni sei fuggita,
Ed io più non vedrò
Risplendere il sorriso
Che era la viva luce del mio giorno
E, disperato, volgerò
I miei occhi intorno
Se mai potesse il mare
Disperdere il dolore,
Ma non è dato e vano è lo sperare.

Sospeso in cielo, là sopra quei monti
L'astro riluce in mezzo al suo cammino
E fino al mar scintilla, rivelando
Lontano l'orizzonte,
In quella chiara luce
Ritrovo il tuo ricordo
E incontro a lui si alza
E si perde la voce
Che scorre via veloce
Come acqua dal cavo della mia mano.
Quanto lontana sei, volta di stelle,
Di lei ricordo l'anima ribelle
E quel tempo sognato
Al muoversi del mare
Il distendersi innanzi del futuro,
Che ci illudeva
Dell'eterno durar dei nostri giorni

Tramontò presto quella chiara luna
Sotto il lontano monte,
Fluì il ricordo, al suono d'acqua lieve,
Si sciolse il giorno, quasi fosse neve:
Eccomi solo, qui, su questa riva
A cercar di te l'anima silente.

Pallido amore, tu non sei più con me
E non v'è nulla intorno,
Non sento il tocco dolce
Delle tue lunghe dita:
Questo rimane di quel che ho vissuto,
Quieto dolor del mio ricordo muto.
Maurizio Donte


venerdì 21 novembre 2014

Chikù: il ristorante italo-rom e l'integrazione che a Scampia si può. Intervista a Emma Ferulano

Io credo – e i fatti confermano – che non ci sia miglior modo per far felice una persona di prenderla “per la gola”. E far felici le persone, soprattutto in una situazione di degrado, può significare molto per la qualità della vita di un territorio. Questo, Emma Ferulano dell’associazione di Scampia “Chi Rom e Chi no” lo sa bene.
Giorni fa, da qualche parte sul web, avevo letto che nella periferia napoletana, nei pressi del quartiere di Scampia, è da poco nato un ristorante di cucina italo-rom. Incuriosita e gradevolmente stupita, soprattutto visti gli ultimi eventi verificatisi tra nord e centro Italia, mi sono chiesta in che modo, in un contesto come quello di Scampia, possa “sopravvivere” un ristorante in cui protagonista sia la tanto discussa minoranza rom.
Così ho chiamato Elena, una delle fautrici dell’attività, e ho scoperto che dietro a quella che può apparire come un’originale startup, si nasconde un’opera di riappropriazione degli spazi che ha svolto un lavoro enorme. Da molti tutt’ora considerato utopia.

“Noi proponiamo un modello in controtendenza che, al contrario di quanto possa apparire, è estremamente semplice – mi spiega – non abbiamo fatto nulla di che, ma solo lavorato per l’integrazione. Mentre l’astio e gli scontri nascono dalle strumentalizzazioni , noi ci siamo adattati alle necessità, e ci siamo uniti”.
Chikù non è solo un ristorante, ma il prodotto – tutt’ora in evoluzione -  di un decennio di militanza, cultura, narrazione e riscoperta di un territorio. Di un’azione caparbia e determinata di pedagogia continua sui cittadini, volta a generare consapevolezza e introdurre alla multiculturalità.

Ma allora, qual è l’origine reale di questa idea?
La vera culla di Chikù è l’associazione “Chi Rom e Chi no”. Il nostro lavoro, da sempre, è quello di svolgere un’azione culturale tesa a difendere i diritti di rom e non rom e diffondere il concetto di interculturalità. Scampia dieci anni fa non era com’è ora: le discriminazioni nei confronti dell’etnia Rom rappresentavano, forse, un problema. Noi, attraverso un lavoro d’inchiesta sulle bellezze del quartiere e la creazione di una sua narrazione in cui si si creasse un collegamento tra differenti culture,  abbiamo rivoluzionato un territorio partendo completamente dal basso. Siamo sempre riusciti a lavorare con tutti indiscriminatamente verso una vera e propria politica di partecipazione.

Quando si parla di riappropriazione di un territorio, inevitabilmente, si parla di spazi. Quali sono i vostri?
Abbiamo una visione radicale della trasformazione degli
spazi dal basso. Il nostro primo, importante “approdo” è stata la costruzione di una baracca all’interno del campo rom del quartiere. Sempre in collaborazione con la comunità, ovvio. E in maniera pressoché inaspettata, quella piccola costruzione è diventato un luogo fortemente simbolico per tutto il territorio: ha ospitato doposcuola, convegni, seminari, carnevali di quartiere, spettacoli teatrali di alto livello e addirittura, una volta, la visita della prefettura.
In un contesto abusivo!

Spettacoli teatrali?
Si, sono circa dieci anni che mandiamo avanti un progetto teatrale con attori rom e non rom; e la compagnia è un calderone culturale: composta da ragazzi di Napoli centro, del periurbano e delle comunità nomadi, è arrivata a contare 100 persone che, tutte insieme, hanno creato un contesto di coesione sociale che ruota attorno ad una produzione artistica di qualità. Possiamo vantare le sceneggiature di Maurizio Braucci e siamo riusciti a mettere insieme intellighenzia e pedagogia.
Da qui, poi, la seconda tappa spaziale del nostro viaggio: l’auditorium di Scampia. La struttura, mai veramente compiuta né resa fruibile, è stata occupata dieci anni fa, diventando da quel momento un altro punto di ritrovo per la cittadinanza e la società civile.

E poi l’idea di Chikù…
All’interno di tutto questo grande melting pot, ogni tanto si finiva per ritrovarsi a cucinare nel campo dopo gli spettacoli teatrali. La gente era contentissima dei grandi buffet di cucina rom che organizzavamo. Quando venivano a farci visita scuole e licei e offrivamo dolci tipici, anche le maestre con la puzza sotto il naso cambiavano espressione. Quello del prendere le persone per la gola non è un luogo comune.
Così, spronati da varie opportunità, abbiamo riunito un gruppo di donne rom e non rom del quartiere e scritto un progetto, che ha finito per vincere il bando pubblico finanziato da Unar e Presidenza dei ministri per la formazione professionale e la vendita di prodotti.
Da qui il servizio di catering: cucina rom e italiana insieme. Dalle polpette al sugo all’insalata di verza e dalle polpettine alle melanzane alle sarme (involtini di verza ripieni di riso).
E da qui altri bandi, altri premi: uno internazionale per l’innovazione sociale e poi un altro, che ha portato UniCredit a chiederci un business plan per la creazione del ristorante vero e proprio.

Un lavorone!
Due anni solo per il piano economico, lavori burocratici e di militanza per l’acquisizione in comodato d’uso gratuito lo spazio sopra all’auditorium di Scampia e la lotta che, non dimentichiamo, continua a rivendicare il mantenimento stesso dello spazio. Abbiamo messo a disposizione l’area sia come punto ristoro che come zona ricreativa.

Con quanti soldi avete realizzato tutto ciò?
Quelli erogati dai bandi sono sempre stati piccoli fondi e la maggior parte delle nostre attività è autofinanziata. Chikù, poi, sarà anche finalizzato a fare fondo cassa, oltre che a dar lavoro ai collaboratori, che sono 9 persone. E’ uno spazio in continuo fermento, facciamo workshop con università e altre realtà, siamo in tanti, ora ci sta aiutando anche un amico chef.

E l’esito sociale?
Beh, intanto si è superata l’idea stereotipata di rom e zingari. Poi, considerando che spesso ci siamo presi a carico nella compagnia ragazzi “borderline” che neanche andavano a scuola, si è dato vita ad un lavoro di arricchimento artistico.  I rapporti tra i cittadini sono cambiati: il concetto di integrazione, da noi, è diventato implicito.

È una situazione in netta controtendenza rispetto a quelle che si vedono nel resto del Paese. Ma siamo sicuri che questo progetto piaccia proprio a tutti?
No, stiamo subendo piccoli attacchi, anche sui social network, sia collettivi che singoli. E poi, ieri, il presidente della municipalità di Scampia ha affermato di voler fare una “marcia” sul campo. Forse in vista delle elezioni, chi lo sa. Ma secondo me lo fa solo per raccogliere un po’ di consenso, e intanto noi – che ti assicuro, siamo molti – tenteremo di bloccare questa cosa pacificamente, testimoniando che queste persone non sono “invasori”. Ci siamo mobilitati tutti in maniera estremamente pacifica: non succederà nulla.

Una considerazione sulle ultime vicende messe in luce dalla cronaca?
Quando il tessuto sociale è debole e dietro di lui regna il vuoto, la gente può finire per dilagare nei peggiori istinti. È necessario partire dal basso, e per dare ordine a questi spazi così complessi ci vuole una cosa, che è fondamentale: la spinta culturale, la volontà pratica - e non retorica - di fare consapevolezza e cultura tra la gente. 

Intervista di Giulia Capozzi
(@giulscapozzi)














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giovedì 20 novembre 2014

Poesia, Inediti Contrasti: Gli Edili, Immaginare



Gli Edili:
"Ho sempre ammirato la disinibizione degli edili, nel guardare ragazze e signore che passano per strada: retaggio maschilista, o adesione fisica, addirittura gastronomica e muscolare, ad una realtà sprovvista di mediazioni, e forse anche per questo 'più vera'?".


Se passa la ragazza impertinente,
o la signora ardita a farsi bella,
d'un tratto si interrompono gli edili
nel degustare pane e mortadella.
Con sguardi temerari eppure vili,
restando a bocca aperta verso il niente,
l'inseguono nei portici rasente,
da maschi immaginando, ma gentili.
Ed io dopo di loro quell'ancella
di nuovi sguardi intensi condivido.
Così mi dà spettacolo la gente *,
dei pani fermi in aria me la rido.
Gianfranco Domizi

* "La gente è il più grande spettacolo del mondo, ed è gratis" (Charles Bukowski).


Immaginare
Amore? Amore è pensare in libertà. E' pensare che al di là degli sconfinati eventi della vita, che ci trascinano e schiantano ovunque, resta un luogo in cui le persone amate manterranno per sempre inderogabile esclusività: la mente. Che è l'anticamera del cuore.

Fragonard, L'Altalena

Talvolta, tra i mille letti
e sui volti
degli amanti della vita,
ci chiediamo cosa infondo
sia l’amore.

S’inventano teorie che da uno sguardo
pretendono di scendere
al passato
o alzarsi sul futuro.
Un futuro immaginato.

Ma io penso che l’amore
in fondo, non si trovi in
uno sguardo:
io l’amore l’ho trovato
in un pensiero.
L’amore vero, io lo immagino
ogni volta che divago.

A fare l’amore in qualunque
Luogo,
a Roma, al mare in montagna
a Praga.
Io lì, con te, ci voglio stare.
Mi ci voglio immaginare.

JungleGiuls







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